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Un particolare di «The Wedding Jange II» (1991) di The Singh Twins, Government Art Collection UK

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Un particolare di «The Wedding Jange II» (1991) di The Singh Twins, Government Art Collection UK

Come collezionare e presentare l'arte non occidentale

«Collecting Asia. Questioning the Exotica and Repositioning Aesthetic Canons», la tavola rotonda organizzata da MAO e Il Giornale dell'Arte con ospiti dai musei di tutto il mondo, si è interrogata su come i musei si devono comportare nei confronti dell'arte orientale

Maurita Cardone

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In un momento storico in cui i musei dei paesi occidentali si interrogano su come superare la visione coloniale che è alla base di molte delle loro collezioni, le scelte espositive diventano terreno di riflessione su come presentare e raccontare l’arte di altre zone del mondo. È apparso evidente nel corso della tavola rotonda dal titolo «Collecting Asia. Questioning the Exotica and Repositioning Aesthetic Canons», organizzata e ospitata dal MAO - Museo d’Arte Orientale di Torino, in collaborazione con «Il Giornale dell’Arte», per riflettere su come l’arte orientale viene collezionata, presentata e raccontata nei musei occidentali. L’evento si è svolto in occasione della chiusura della mostra «Hub India | Classical Radical» che Davide Quadrio, prima di prendere la direzione del MAO, aveva co-curato con Myna Mukharjee il progetto lanciato per Artissima e poi diventato una mostra in tre parti dislocata tra MAO, Palazzo Madama e Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che ha esplorato i linguaggi dell’arte contemporanea del subcontinente indiano.

A moderare l’evento è stata Anna Somers Cocks, fondatrice ed ex direttrice di «The Art Newspaper» che, aprendo l’incontro, ha esordito: «Cosa i musei occidentali debbano fare con le collezioni di arte non occidentale è un tema caldo al momento, perché l’Occidente ha scoperto che il resto del mondo esiste e sta diventando più importante dell’Occidente stesso». L’evento si è articolato in tre momenti: una prima parte dedicata alla riflessione su come i musei del mondo possano ripensare il modo in cui presentano l’arte asiatica; una seconda incentrata sull’esperienza di Hub India e un’ultima in cui il nuovo direttore ha voluto anticipare al pubblico il nuovo corso del museo.

Nell’aprire la conversazione la moderatrice ha notato come i musei abbiano per anni organizzato le proprie collezioni secondo due criteri fondamentali, quello estetico e quello tassonomico. Quando trent’anni fa il Victoria And Albert Museum di Londra, di cui Anna Somers Cocks è stata curatrice per 13 anni, riorganizzò il proprio materiale seguendo un criterio legato alle funzioni originarie degli oggetti, si scatenarono critiche furiose con l’accusa di abbassare opere di «bellezza mistica» al livello di oggetti quotidiani.

L’episodio, che evidenzia la necessità di rivedere la presentazione di opere d’arte, è stato uno spunto per chiedere agli ospiti come debbano comportarsi i musei quando espongono oggetti sacri con un preciso valore per le culture che li hanno prodotti. Navina Najat Haidar, curatrice della sezione di arte islamica del Metropolitan Museum, intervenendo online da New York, ha spiegato che parlare di arte islamica significa parlare anche di un fenomeno politico, storico e culturale. «Nel nostro dipartimento ci impegniamo a spiegare cosa definisce l’arte islamica e qual è il ruolo della religione nella creazione artistica. E lo facciamo per esempio partendo dall’arte calligrafica e dai manoscritti del Corano e creando un filo storico con i primi secoli dell’Islam quando era un movimento non solo religioso ma politico».

Dalla sala del MAO, Myna Mukharjee, co-curatrice di Hub India e direttrice del festival di danza Engendered (New Delhi), ha offerto un punto di vista diverso sulla questione spiegando che in India religione significa tante cose: «La religione in India non ha una connotazione universalista, ma offre una moltitudine di pluralità. Non c’è una tradizione univoca a cui relazionarsi, c’è un pluralismo in continua trasformazione, un processo, una conversazione: è un’idea molto contemporanea di religione». Secondo Mukharjee in un’esposizione museale «statica» gli oggetti si appiattiscono, mentre i musei dovrebbero sforzarsi di offrire una rappresentazione dinamica che consenta di capire da dove quelle opere vengono e quali sono i loro significati.

Altro criterio di classificazione radicato nella cultura museale occidentale è la distinzione tra arti alte e basse, con l’arte folklorica relegata irrimediabilmente nella seconda categoria. Anna Somers Cocks ha chiesto ai suoi ospiti se questo concetto fosse presente anche in India. Alka Pande, curatrice e storica dell'arte, non ha avuto dubbi: «In India questa gerarchia è molto marcata». La curatrice ha spiegato che l’arte tradizionale indiana segue dei canoni precisi chiaramente codificati, mentre si considera arte folklorica e bassa quella che proviene da localismi dove i canoni non esistono. Ma ha aggiunto che è in corso un processo di ridefinizione: «Nell’attuale ecosistema artistico iniziano ad emergere le culture indigene, quelle che chiamiamo living culture, che esprimono l’arte e l’anima di persone legate alla loro terra e alle loro tradizioni. L’india è ricchissima di culture indigene e nella loro arte c’è così tanto da scoprire, tantissimi linguaggi. E ci sono artisti incredibili che forse non sono andati nelle migliori accademie e non usano gli strumenti digitali, ma stanno scrivendo la loro storia, la loro biografia, attraverso la musica, la danza, le immagini e tanti strumenti che sono parte della loro tradizione. Quindi io non userei più quella distinzione».

La seconda parte dell’evento si è aperta con due video provenienti da due luoghi ai capi opposti del mondo. Suhanya Raffel, direttrice di M+ (Hong Kong) ha portato il pubblico del MAO a visitare gli spazi del suo museo, realizzati con materiali della tradizione locale, come la terracotta e il bamboo. M+ riunisce sotto uno stesso tetto arte contemporanea, design, architettura e immagine in movimento e la sua collezione, ha raccontato la direttrice, è stata messa insieme da zero, a partire da una donazione di arte cinese dal 1970 al 2012, per poi crescere dando spazio all’identità di Hong Kong e delle sue arti.

In un secondo contributo video, Laura Vigo ha permesso al pubblico di esplorare gli spazi del Musée des beaux-arts di Montréal di cui è curatrice della sezione di arte asiatica, spiegando le scelte curatoriali di un allestimento che spazia dall’archeologia precolombiana all’arte cinese e giapponese, alle ceramiche persiane. Vigo ha definito il museo una collezione di collezioni soprattutto private che riflettono l’idea di Oriente dei collezionisti e i loro canoni estetici occidentali. «Quello che possiamo fare noi, ha detto Vigo in collegamento dal Canada, è raccontare la storia di una collezione e le sue unicità. Non possiamo aspirare all’esaustività, credo sia più importante l’aspetto aneddotico di una collezione e la sua relatività. Dobbiamo puntare su ciò che ci rende unici».

Tornando negli spazi del MAO, la discussione è proseguita concentrandosi sull’esperienza appena conclusasi di Hub India. Myna Mukharjee ha raccontato che alle origini del progetto c’è stata una riflessione su cosa sia il contemporaneo: «L’idea che il modo di concepire il contemporaneo possa essere diverso tra Occidente e Oriente. Questa polarità per me è di per sé problematica. Non ci sono polarità nell’Asia meridionale, gli artisti parlano di vivere realtà multiple che sono intorno a loro e che si riflettono nel loro lavoro. E anche il tempo è inteso diversamente nelle culture del Sud asiatico. In Occidente il tempo è inteso come progressione lineare, mentre nell’Est è ciclico. Questo si riflette nel modo in cui intendiamo la distinzione tra arte tradizionale e arte contemporanea. Contemporaneità nell’Asia Meridionale ha a che fare con il socio-politico, indipendentemente da quale sia la forma».

Ricordando che molto del lavoro di preparazione è stato fatto durante la bolla temporale creata dalla pandemia, Davide Quadrio ha aggiunto: «Ci siamo chiesti come creare qualcosa che avesse un senso non universale ma legato al suo particolare contesto, che era quello di una mostra di arte contemporanea indiana in un museo europeo, italiano, torinese. Ci interessava chiederci cosa sia contemporaneo e farlo attraverso media e punti di partenza diversi, chiederci cosa resta della tradizione e come parlarne». Con un obiettivo del genere, la mostra non poteva che essere uno spaccato della più recente produzione artistica di quell’area del mondo, con molto spazio alle giovani generazioni. Lo ha sottolineato la presidente dell’Accademia Albertina Paola Gribaudo, che ha ricordato come, contattata dalla direttrice delle ultime 3 edizioni di Artissima Ilaria Bonacossa, si sia fatta coinvolgere con entusiasmo nel progetto, ospitando una parte della mostra.

Da New Delhi è intervenuta Roobina Karode, curatrice e direttrice del Kiran Nadar Museum of Art, museo privato di arte moderna e contemporanea con sede a New Delhi e Noida, sottolineando un altro merito del progetto torinese: «L’India non è una sola storia, ma tante storie insieme e questo Hub India lo ha evidenziato. Il contemporaneo in India non è uno, né è lineare. L’india stessa vive simultaneamente in tempi diversi. Bisogna allora cercare di guardare a cosa significa essere contemporanei, oltre l’idea del temporale».

Per l’artista Andrea Anastasio, che ha realizzato diversi progetti in India, il concetto di contemporaneo non può prescindere dal contesto: «La bellezza della molteplicità delle forme deve andare di pari passo con la comprensione del contesto e di come questo plasma la forma. Per me quello che definisce l’arte contemporanea è la consapevolezza da parte dell’artista del contesto in cui il suo lavoro viene generato, mentre in tradizioni artistiche che non mettono in discussione la definizione di collettivo e individuale quella domanda non viene mai posta». La seconda parte dell’evento si è chiusa con un intervento di Mami Kataoka, direttrice Mori Museum, Tokyo, Giappone che ha raccontato la genesi della mostra «Phantoms of Asia: Contemporary Awakens the Past», realizzata nel 2012 a San Francisco.

Nella parte conclusiva dell’evento il microfono è passato a Davide Quadrio che ha condiviso con il pubblico la sua visione per il museo che dirige da appena un mese, spiegando che il futuro del MAO terrà conto anche del passato, recuperando alcune delle esperienze pionieristiche del museo. Quadrio ha illustrato le prossime mostre, a partire da «A Great Void. From Sound to Space» che aprirà a maggio, con un’esposizione che ruota intorno a una Thangka, accompagnato da un soundscape di Vittorio Montalti che accoglierà i visitatori e un’installazione fotografica di Tulku buddha.

Il neodirettore ha spiegato che la collezione si trasformerà in relazione agli obiettivi del museo, tra cui quello didattico cui Quadrio intende dare crescente rilevanza. Sotto la sua guida il museo si aprirà inoltre a nuove collaborazioni nazionali e internazionali e valorizzerà la commistione tra le arti. «Vogliamo che sia un posto vivo, ha detto, organizzeremo eventi, creeremo spazi per la socialità e per la creatività rendendo il museo accessibile a tutti». Quadrio ha infine annunciato un nuovo programma di residenza che si aprirà con l’artista torinese Marzia Migliora.
 

Un particolare di «The Wedding Jange II» (1991) di The Singh Twins, Government Art Collection UK

Maurita Cardone, 18 marzo 2022 | © Riproduzione riservata

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