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La Biennale di Venezia

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La Biennale di Venezia

Diario da Venezia prima parte | Reportage in aggiornamento dalla 60. Biennale

Un viaggio tra Giardini e Arsenale alla scoperta della mostra centrale «Stranieri Ovunque» di Adriano Pedrosa

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Jenny Dogliani

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Giorno 1

Esattamente 60 anni fa, nel 1964, a Venezia si inaugurava quella che passò alla storia come la Biennale della Pop art. Il Leone d’Oro a Robert Rauschenberg spostò definitivamente l’epicentro della scena artistica internazionale dall’Europa agli Stati Uniti. A tutti allora era sembrato un cambiamento epocale e in effetti lo fu. Dopo secoli di egemonia dell’arte europea, che annoverava tra le sue fila incommensurabili talenti, da Giotto a Michelangelo, da Leonardo a Delacroix, da Turner a Picasso, lo scettro passava alla giovane terra americana (del Nord) che, libera dal confronto con un tale importante passato, era estremamente ricettiva e aperta al nuovo. Guardandola in retrospettiva fu, però, in una certa misura, una rivoluzione autoreferenziale, poiché l’arte confermava, sempre e comunque, il proprio fulcro bianco, occidentale e predominantemente di produzione maschile. Oggi, il 16 aprile 2024, esattamente 60 anni dopo, una nuova e più profonda rivoluzione scuote il mondo dell’arte. La compie il direttore brasiliano Adriano Pedrosa, che con la sua 60ma Biennale di Venezia tenta di riscrivere, o meglio, di scrivere una nuova storia dell’arte moderna e contemporanea, con 331 artisti e collettivi di 80 Paesi, provenienti per la maggior da Africa, Asia, Medi Oriente e America Latina, senza discriminazioni di genere e perlopiù alla loro prima partecipazione alla Biennale.

Nil Yalter nel Padiglione centrale ai Giardini

Naturalmente non bisogna aspettarsi un’arte marziana o lunare. Secoli di dominazione coloniale e di emigrazioni, insieme all’abitudine a viaggiare dei giovani artisti, hanno creato delle interconnessioni profonde, radicate e strutturali tra le pratiche e le tradizioni delle arti autoctone e quelle dell’arte occidentale. Lo si percepisce subito nella sala di Nil Yalter (1938), artista turca nata al Cairo, di base in Francia, Leone d’Oro alla carriera. Ad accogliere i visitatori, varcata la soglia del Padiglione centrale ai Giardini, è una sua installazione ambientale composta da una tenda rotonda in juta grezza, ispirata alla storia di migrazione della comunità nomade Bektik, che nel X secolo aveva dovuto lasciare l’Anatolia centrale. Tutto intorno, sulle pareti della sala, una carta da parati riproduce le fotografie in bianco e nero di immigrati ed esiliati. Disposte secondo una rigida griglia ortogonale, queste immagini formano un ipnotico carosello intervallato da alcuni video, anch’essi in bianco e nero, che raccolgono le testimonianze dei soggetti ritratti nelle foto. Vi è anche una grande scritta riprodotta in più lingue, sempre nella medesima tonalità di rosso scarlatto, dice: «L’esilio è un lavoro duro». A fare da eco alle questioni migratorie di queste antiche popolazioni è dunque una dimensione estetica nella quale, accanto a pratiche tradizionali che evocano una certa libertà di movimento e nostalgia per il proprio passato, confluiscono tracce del modernismo occidentale, in questo caso il Costruttivismo russo, che piega l’arte a scopi sociali. Questa rigida e spigolosa geometria dell’astrazione moderna occidentale, legata a una società sì democratica e liberale, ma anche, specialmente nel Novecento, colonialista, capitalista e maschilista, si stempera nel Modernismo astratto del Sud del mondo, dove le forme si fanno più curvilinee e sinuose, i colori più brillanti, vivaci e meno puri, i contrasti meno netti e più sfumati. La neozelandese Sandy Adsett racchiude in una forma quadrata e in una brillante variazione tonale di verdi e di blu la vorticosa energia dell’acqua. Nena Saguil trasforma il pigmento nella superficie materica e porosa di atomi e pianeti che si intersecano nello spazio bianco della tela. I supporti sono spesso estranei ai più «nobili» strumenti dell’arte occidentale, l’irregolarità e l’artigianalità degli elementi tessili diventano un fattore estetico essenziale e identitario, come nel caso di Eduardo Terrazas, che trasforma la tradizione tessile indigena dell’America Latina in un’iridescente intersezione di quadrati e di cerchi.

Victor Fotso Nyie per «Stranieri Ovunque»

Ma anche laddove la materia è più «consona» agli standard occidentali, come l’oro e la ceramica, l’arte di questa Biennale sembra orientare il futuro dell’umanità verso una dimensione maggiormente spirituale, ricollegandola alla sua origine ancestrale. Victor Fotso Nyie (1990, camerunense attivo a Faenza) realizza ritratti scultorei in ceramica monocroma dorata; in essi le fattezze tradizionali delle statuine lignee africane si mescolano con quelle futuristiche degli avatar. Il volto della madre defunta è immerso sorridente in un sonno profondo; la malinconica solitudine di una donna che si contempla allo specchio evoca, coadiuvata dalla purezza e lucentezza dell’oro, la bellezza e fragilità della vita. La morte è presente in modo diverso da quello cui siamo abituati, rappresentata in modo poetico fa parte di un disegno più grande, rientra nel ciclo della vita, per quanto atroce possa essere il modo in cui essa giunge. La sagoma di un uomo campeggia abbozzata su una grande tela bianca. L’opera, eterea e raffinatissima, è di Teresa Margolles. Il colore marrone chiaro è dato dal sangue raccolto, in copiosa quantità, durante l’autopsia di un giovane venezuelano ucciso sul confine con la Colombia, vittima della migrazione forzata. La medesima sensazione di fragilità emerge amplificata nelle opere di artisti queer, per esempio nei lavori concettuali di Dean Sameshima, che, attraverso una semplice scritta blu su tela bianca, «Anonymous Homosexual», si avvale di un linguaggio basico, semplice e socialmente accettabile per esplorare temi intimi e complessi legati a desiderio, discriminazione e identità di genere. Sono quasi tutte opere silenziose, rimaste sotto traccia rispetto alla ridondante cacofonia di una cultura iperimmaginifica forzatamente imposta dalla dominazione coloniale, che se non usa le armi è ancora più insidiosa. Se ne ha una esemplificazione nell’opera ambientale di Pablo Delano «The Museum of Old Colony», un mastodontico e affollatissimo archivio che attraverso oggetti, come banchi di scuola, crocifissi, bibite e dollari, e fotografie in bianco e nero, racconta la storia di dominazione del Porto Rico, prima sotto la Spagna, poi sotto gli Stati Uniti.

Omar Mismar (a pavimento) e Teresa Margolles (sulla parete)

Kiluanji Kia Henda

La Biennale mette a fuoco un vasto mondo di diseguaglianze in cui sono proprio gli artisti non occidentali a mostrarci nuove e possibili vie d’uscita. Il «Refugee Astronaut VIII» di Yinka Shonibare, che accoglie i visitatori nelle Corderie dell’Arsenale, è un grande manichino con il casco da astronauta, la tuta spaziale in tessuto africano e sulle spalle una grande rete carica di oggetti comuni, pentole, bottiglie e giornali. È l’emblema di una nuova umanità: l’uomo, che duecentomila anni fa ha mosso dall’Africa i suoi primi passi, ci mostra una diversa visione del futuro, una cultura ibrida fatta di futuro e di passato, di Sud del mondo e di Occidente, una terza via dove non predomina nessuno. Una nuova concezione dello spazio del mondo e della sua «abitabilità» che prende forma nell’installazione di Mataaho Collective, «Takapau», geometrico intreccio in poliestere ispirato al tradizionale intreccio delle foglie di palma, che dà forma una futuristica tensostruttura bianca capace al contempo di trattenere e rilasciare la luce che filtra. La coercizione è un fantasma del passato, evocato nelle installazioni di Kiluanji Kia Henda, composte da assemblaggi di vecchie ringhiere metalliche, spettrali rovine di egemoniche forme del potere militare e della mascolinità, la stessa cui è dedicata la grande scultura «Pret-a-Patria» di Barbara Sanchez-Kane: tre manichini di soldati impilati e indottrinati, impegnati in una cruenta marcia di dominazione, in una macabra e grottesca sfilata del potere. A offrirci una via d’uscita, l’opera di WangShui, un tessuto pulsante di led bianchi che lampeggiano, un messaggio in codice da un futuro lontano, un monito per tutti noi: «la coscienza, avverte WangShui, si forma negli spazi latenti tra i nodi della leggibilità», e l’arte, la vera arte, al di là di qualsiasi latitudine, è il nome di quello spazio.

     

«Refugee Astronaut VIII» di Yinka Shonibar

Jenny Dogliani, 16 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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