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Satrapie orientali di potentati accademici rivali

L’ambientino non tanto aperto e amichevole delle missioni archeologiche italiane nel Vicino e Medio Oriente

Giovanni Curatola

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Attualmente ci sono questioni più urgenti da prendere in considerazione sulle relazioni fra il nostro mondo (parliamo pure di Occidente, anche se la cosa lascia un po’ perplessi perché, per fortuna, le specificità e differenze non mancano) e quello vicino e medio orientale, che non le problematiche archeologiche. Eppure... Anche un mondo così piccino e ristretto può forse essere utile nel suo microcosmico interesse a capire il macrocosmo. Prendiamo un Paese a caso: l’Italia. Un po’ di storia, minima.

Col Vicino e Medio Oriente abbiamo lavorato molto, talvolta anche bene. Ma di base e di fatto con la sempiterna logica dell’ognuno per sé e Dio (il Ministero degli Affari Esteri, con la famigerata Cooperazione) per tutti. Cito un po’ a memoria e un po’ a caso; se mi sbaglio di troppo qualcuno solerte mi correggerà: i primi della classe, sempre puri, saccenti e precisini non mancano mai! Per fortuna, excusatio non petita, tutta la mia vita professionale testimonia come io a quella categoria proprio non appartenga. Se non me ne vanto, nemmeno me ne dolgo. Pensiamo, allora, a quello che oggi è un po’ un patriarca dell’archeologia orientale italiana, Baolo (all’araba) Matthiae. I problemi vengono spesso dai padri: Sabatino Moscati, celebre archeologo italiano, famoso soprattutto, all’estero, per non avere in pratica mai fatto personalmente uno scavo (peccato più che veniale nello Stivale, soprattutto quando poi si era diventati davvero potenti e a forza di dirsi qualcosa ovvero di autoproclamarsi, o di farselo dire, tutti si convincevano, e si convincono, dell’assunto), al nostro Matthiae gliene procurò mi pare più d’uno, tant’è che per anni il Ministero degli Esteri (nel quale Moscati, rabbinicamente pretesco, o viceversa, aveva più di un’entratura) s’è guardato bene dal finanziare quegli scavi di Ebla che hanno reso Matthiae famoso e celebrato.

Sorvoliamo sull’incresciosa vicenda dello scontro (anche politico) con Giovanni Pettinato e sulle famose tavolette della biblioteca. Fatto è che poi Matthiae si è ampiamente rifatto e chi avesse avuto la balzana idea di fare un qualsivoglia lavoro archeologico in Siria di riffa o di raffa doveva avere il suo beneplacito. Poi, si sa, qualche allievo traligna, ma è umano, no? Spostiamoci, tanto per riprova, un po’ più in là, per esempio in Iraq dove Matthiae non aveva cittadinanza perché quello era il «regno» di Giorgio Gullini (non romano, di cattedra, bensì torinese), il quale su quei territori, con qualche propaggine come la Gerasa di Giordania, esercitava pari e pieni poteri. Satrapie orientali, appunto. Governate con polso fermo e strategie diverse (mai fu fondato a Damasco un istituto archeologico, mentre quello di Baghdad fu assai attivo e prestigioso: tanti allievi, magari «ingrati», della scuola siriana, pochi per contro i «sistemati» piemontesi); strategie ferocemente avverse le une alle altre, oppure condotte sdegnosamente ignorandosi.

E l’Iran? Ah, beh! Quello era il regno di uno di categoria superiore, di Giuseppe Tucci e del suo Ismeo, istituto benemerito, per carità, ma anche quello non propriamente un ambientino aperto e amichevole. Afghanistan e India a Maurizio Taddei e Iran a Umberto Scerrato per l’archeologia (perché per il restauro abbiamo avuto Giuseppe Zander ed Eugenio Galdieri, tutt’altra pasta, umana e scientifica), caratteri assai diversi fra loro, e poi Tosi,  Callieri, Fontana, Genito e per li rami tanti altri... ma anche in quel caso non è che mettere il naso o un piede fosse facile, tutt’altro. Spesso, poi, anche le nomine agli Istituti di Cultura di quelle capitali (fatte come si sa dal Ministero degli Esteri) risentivano delle influenze o delle imposizioni dei maggiorenti. 

Insomma la storia dell’archeologia italiana degli ultimi cinquanta anni nel Vicino e Medio Oriente è una storia di potentati accademici rivali. Che magari in pubblico si sorridevano ossequiosi, ma in privato si detestavano cordialmente (come ai concorsi universitari, vera cartina di tornasole: quando potevano si accoltellavano e quando no si spartivano i posti con il Cencelli accademico). Tagliare il nodo gordiano (questa è davvero buona!) della dipendenza dai finanziamenti del Ministero degli Esteri è stato ed è di fatto impossibile. Qualcuno è certo sfuggito a tali imposizioni (pensiamo soprattutto agli scavi «classici» in Turchia, ma forse ne sappiamo solo un po’ meno), essendo condannato all’isolamento, magari qualche isola felice c’è anche stata.

Ma veniamo ad altro, sempre nell’ottica di farmi qualche altro amico riconoscente. Siria, Iraq, Iran non è che siano proprio considerati fulgidi esempi di democrazia, e non da oggi! I primi due sono in preda a guerre civili dopo anni di dittature abbastanza sanguinarie, e l’Iran già con Reza Pahlavi e la Savak non è che scherzasse. E in quegli anni lor signori (politici, vabbè, e archeologi) facevano solo scienza, solo scavi, solo storia: non si vedeva niente? Insomma se poi da quelle parti qualcuno tira fuori che l’archeologia (peraltro tutta ed esclusivamente preislamica, sia ben chiaro, perché documentare una storia che è lì da solo 1.400 anni è prematuro e non sia mai che si dia dignità archeologica a quella storia) è stata ANCHE una bella avventura coloniale, mettiamo il broncio offesi. Ma come? Gli ritiriamo fuori la loro storia e non gli va nemmeno bene? Ma, per dire, sostenere che Assad (padre) non era poi tanto male, nonostante che il majzarat Hama («macello di Hama») sia del febbraio 1982 (trentacinque anni fa, tondi tondi), mi pare abbastanza forte; eppure non un battito di ciglia, non una piega, non una parola. Anche gli archeologi, puri scienziati, forse dovrebbero smettere di tener bordone a certi regimi: tanto per dire (che a fare si fa peccato) come la mettiamo adesso con Erdogan? Giornalisti, magistrati, professori e archeologi in carcere... ma si sa le pietre antiche sono neutre. Forse sarebbe il caso di essere un tantino meno ipocriti.

Ci può stare tutto e il contrario di tutto, e non solo in Italia, basterebbe averne coscienza e dirlo, senza nascondersi dietro la neutralità degli studi. Una postilla. Gran parte dei fondi per queste ricerche vengono dal Ministero degli Affari Esteri e dalla Direzione generale per la Promozione del Sistema Paese (Ufficio VI. Cooperazione culturale in ambito multilaterale, missioni archeologiche) e, a quel che risulta allo scrivente, come consulente (si spera non unico, ma già così è abbastanza) opera qualcuno che si qualifica storico dell’arte e che è professore a contratto (cioè non di ruolo nell’Università) e che a vedere il curriculum si occupa di architettura soprattutto in chiave contemporanea. Magari sarà anche uno studioso serio e preparato, chissà? Ma viene da chiedersi e da chiedere a chi di competenza: non c’era qualcuno un po’ più adatto e preparato per un compito così delicato?! Certo, il livore che qualcuno vorrà vedere trasparire da queste righe sarà attribuito al fatto che chi scrive ha cercato (di ritorno da sette mesi in Iraq, nel giugno 2004) un approccio col Ministero degli Esteri per essere destinato (e per «chiara fama», umana vanità...) a dirigere un Istituto Italiano di Cultura. Sono e sarò sempre molto grato all’alto diplomatico (ambasciatore) che con «estrema franchezza» ebbe a dirmi: «Professore, il suo curriculum è perfetto per almeno tre o quattro destinazioni, ma è il suo carattere, troppo indipendente, che non la porterà da nessuna parte qui!». Una medaglia. Amen.

Giovanni Curatola, 08 luglio 2016 | © Riproduzione riservata

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