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Giovanni Curatola
Leggi i suoi articoliDi Madonne della melagrana ce ne sono diverse: da quella del Botticelli agli Uffizi a quella di Gubbio, a Jacopo della Quercia nel Duomo di Ferrara. Il melograno è una pianta antichissima, di probabile origine iranica, che può simboleggiare il frutto del peccato originale, più comunemente il sacrificio di Gesù per i cristiani, ma anche e soprattutto è universale emblema di abbondanza e fertilità. Ricordo che per un brindisi in Georgia (autorizzato dal locale tamada, una sorta di «direttore della libagione», banalmente confuso da noi con un sommelier), ricorsi alla metafora della melagrana per esprimere il concetto e perorare la causa dell’«unità nell’individualità e diversità», per essere poi rimbrottato da un autorevole commensale che mi disse che le granate erano anche armi belliche e i semi schegge pericolose. Si parlava, allora, dell’Unione Sovietica, e le opinioni non erano proprio convergenti. Le melagrane migliori le ho mangiate in Iran (si chiamano «anar», mentre in arabo si chiamano «rumman», ovvero un’etimologia che rimanda a «romano»!). Ne esistono numerose varietà e se ne trae un succo molto dissetante e ricco di proprietà importanti.
È questa la stagione, anche di un piatto squisito: il fesenjun. Ne trascrivo la ricetta per 4-6 persone. Gli ingredienti necessari sono quattro grosse cipolle rosse, il succo di 3/4 melagrane ben mature, 20 gherigli di noce finemente tritati (non sarà peccato avvalersi alla bisogna di un minipimer), due cucchiai d’olio d’oliva del migliore e 50 grammi di burro, una cacciagione da penna (sostitutiva dell’ormai introvabile fenice) o pollo. Quest’ultimo è oggi prevalente, ma decisamente un escamotage un pochettino misero. Sale e pepe q.b. La preparazione è abbastanza semplice ma, come sempre in cucina, non bisogna avere fretta. In una casseruola alta fate cuocere nel burro e olio le cipolle tritate finemente. Attenzione, non devono soffriggere, bensì cuocere molto lentamente fino a trasformarsi, avendole bagnate più volte con acqua bollente o, se lo avete, un brodo vegetale, ma non di dado che fa male, in una pappetta. Ci vuole abbastanza tempo, non meno di un’oretta o anche più. A questo punto aggiungete le noci tritate e lasciatele pure attaccare al fondo del tegame, ma non fatele bruciare; insomma bisogna rigirare abbastanza di frequente. Quando il composto rilascia l’olio delle noci, aggiungete due bicchieri di succo di melagrana e godetevi lo straordinario colore fucsia/violetto che poi vira verso il bruno. A questo punto aggiungete la carne, opportunamente spezzata e fatela cuocere nell’intingolo, di tanto in tanto versando ancora del succo, fino al suo esaurimento. La salsa ottenuta sarà abbastanza densa ma non deve aggrumarsi e rimanere invece un po’ liquida. Servire con riso pilaf, ravvivato da chicchi cotti nello zafferano (se non c’è va benissimo la curcuma) e semi di melagrana freschi. Era il piatto preferito di Ciro il Grande e, modestamente, anche il mio.
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