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Proviamo a interpretare l’affermazione attribuita a Paul Klee, secondo la quale «l’arte rende visibile ciò che non sempre lo è» senza coglierne il sostrato vagamente inquietante (attraverso l’arte quante panzane sono state fatte credere alla gente, per i più svariati fini?). Ebbene, in quelle parole scopriamo il potenziale di un’ecumenica indulgenza plenaria nei confronti di migliaia di artisti visivi, dal Beato Angelico a Kandinskij. A un certo punto della sua vita, Giuseppe Penone deve avere pensato che il passo successivo sarebbe potuto consistere da un lato nel privare l’artista stesso di uno dei suoi sensi più importanti, la vista appunto, e dall’altro, in un panorama in cui prevaleva un’arte sempre più emancipata dalla manualità e votata alla speculazione concettuale, riportare il gesto artistico all’estrema fisicità, esaltando, ben più della visione, il senso della tattilità. Se Nietzsche a 45 anni «conobbe la pienezza dello spirito» (così la lapide commemorativa) abbracciando, si dice, un cavallo maltrattato da un cocchiere torinese, nel 1968 Penone, a 21 anni, pervenne a una panica pienezza dell’essere nei boschi di casa sui monti di Garessio nel cuneese, abbracciando un albero, avvinghiandovisi e contornando il perimetro del suo corpo con una serie di chiodi: l’albero, crescendo, li avrebbe inglobati e avrebbe portato dentro di sé l’artista, trattenendone la giovinezza sino a che morte (dell’albero), non fosse sopravvenuta.
«Sento il respiro della foresta, odo la crescita lenta e inesorabile del legno, modello il mio respiro sul respiro del vegetale, avverto lo scorrere dell’albero attorno alla mia mano appoggiata al suo tronco». Queste parole si spiegano anche con il fatto che in quella serie di azioni, intitolate «Alpi Marittime», con le quali Penone avvia la sua fortunatissima carriera, l’artista fa fondere in metallo il calco della sua mano che stringe un altro tronco: «L’albero, così, crescerà ovunque tranne che in quel punto». È una Land Art a misura d’uomo, lontana dalla retorica e dal monumentalismo paesaggistico della versione americana: «Posso dire che senza la città e la cultura urbana, nella quale il mio lavoro si situa, non esiste la campagna, dichiarò in un’intervista a questo giornale. E del resto i valori della campagna ci sono perché esiste la città, e viceversa. Il paesaggio cui siamo abituati, quello della nostra Europa, è un paesaggio creato dalla presenza e dal lavoro dell’uomo. L’uomo produce natura, è natura, e la natura è memoria dell’uomo». Le fotografie delle cinque azioni eseguite in quell’occasione vennero esposte il 22 maggio 1969 da Gian Enzo Sperone, primo sostenitore di quella che due anni prima, in un testo a firma di Germano Celant, intitolato come usava allora «Appunti per una guerriglia» e pubblicato sul n. 5 di «Flash Art», aveva definitivamente battezzato come Arte Povera, via rivoluzionaria e alternativa in «un contesto dominato dalle invenzioni e dalle imitazioni tecnologiche». Ma per restare a Penone e alle sue operazioni tattili e antiottiche, il giovane artista a un dato punto rovesciò i suoi stessi occhi, indossando lenti specchianti che lo rendevano cieco. «Poste sull’occhio, scrive l’autore, indicano il punto di divisione, di separazione da ciò che mi circonda. Sono, come la pelle, un elemento di confine, l’interruzione di un canale d’informazione che usa come medium la luce. La loro caratteristica specchiante fa sì che l’informazione giunta al mio occhio venga riflessa (…). Quando gli occhi, coperti dalle lenti a contatto specchianti, riflettono nello spazio le immagini che colgono con i movimenti abituali dell’osservare, si dilaziona nel tempo la facoltà di vedere e si affida all’incerto esito della registrazione fotografica la possibilità di vedere nel futuro le immagini raccolte nel passato». «Rovesciare gli occhi» resta, a ragione, una pietra miliare nel lungo percorso di Penone; se Giulio Paolini nel «Ritratto di giovane che osserva Lorenzo Lotto» (1967) aveva ribaltato il rapporto tra artista e soggetto trasformando «per un attimo, tutti quelli che guardano la riproduzione fotografica (di cui è costituita tecnicamente l’opera, Ndr) in Lorenzo Lotto», il suo più giovane collega estroflette il suo stesso sguardo. E intanto, più radicalmente dello stesso Paolini, tocca il tema centrale di tutta la sua opera, ovvero il rapporto con il tempo, e accenna en passant a un soggetto metafora che caratterizzerà la gran parte delle proprie opere: la pelle.
Aveva iniziato a sondare il tempo nelle azioni di «Alpi Marittime» e, prima di «Rovesciare gli occhi», nelle opere che resteranno le sue più note, gli «Alberi», ricavati, ancora una volta, attraverso un ribaltamento: seguendo i segni dei nodi sulla superficie di una trave di legno, la scava per rivelarne l’origine di rami di un tronco che tornerà a essere giovane, in quanto contenuto e recuperato nella squadratura della trave stessa. Il primo è del 1969, è alto 4 metri e lo espone da Sperone nello stesso anno. Lo compra Laura Levi, moglie di Corrado Levi, collezionista, artista e «pensatore d’arte» torinese. Le travi di legno e le barre di metallo erano i materiali d’elezione per i minimalisti, in un periodo in cui l’intervento manuale doveva essere programmaticamente ridotto al minimo; si capisce allora perché lo scavare di Penone, sovvertendo il brutalismo del manufatto industriale, potesse destare qualche perplessità. Si trattava, invece, di quella ricerca di un rapporto di complicità e di coautorialità con la natura, in cui l’intervento manuale è in equilibrio con la processualità e la «natura» del materiale, che avrebbe reso il lavoro di Penone leggermente «eretico al contrario» rispetto a quello dei suoi compagni di strada. Un esempio di quella complicità lo presenta, nel 1970, alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino: l’opera era costituita da un pane lungo due metri che celava all’interno dell’impasto un alfabeto in acciaio inox. Collocandolo all’esterno del Museo, lasciò che fosse l’appetito degli uccelli (e forse di qualche altro meno poetico animale) accorsi a quell’invito di zoo-eat-art, a rivelarne il contenuto «praticando inconsapevolmente la scrittura».
Quanto alla pelle, può essere anche quella delle sue stesse palpebre chiuse. Rilevatane mediante un’impronta in una pellicola di resina la struttura epidermica, la proietta, ingrandita, su grandi tele e ne ripercorre a carboncino le pieghe, gli ispessimenti e le nervature. Ne risultano immagini prodotte dal non vedere, mappe dalla mirabile struttura geovegetale. Con lavori basati sul calco rilevato da brani della propria pelle, e, analogamente a quanto fatto con le palpebre (aveva iniziato con «Svolgere la propria pelle», 1970 e «Pressione», 1974), proiettati e ricalcati a carbone sulle pareti della sede che accoglie l’opera, partecipa alla Biennale del 1978 intitolata «Dall’arte alla natura, dalla natura all’arte», titolo che, se non avesse il sapore di un jingle di una campagna pubblicitaria per una marca di pelati, potrebbe essere stato pensato da Penone. Espandendo la superficie «geografica» del proprio corpo su un intero ambiente, l’artista mise in atto una sorta di «occupazione proiettiva»: dopo essersi fatto albero, si fece, a ripensarci ora, Biennale di Venezia.
Il calco, di cui il frottage è una delle molte modalità possibili, assume ben presto un ruolo primario nel modus operandi di Penone. Sul calco, che «non crea nulla» ma «produce qualcosa», per citare Georges Didi-Huberman, l’artista è intervenuto con particolare precisione in un dialogo con Michel Merle, microchirurgo appassionato d’arte contemporanea. La tattilità, anzitutto, produce conoscenza: «Per comprendere la realtà, occorre l’esperienza tattile diretta delle cose. Quando lavoro con le mani, ho una percezione della realtà che in parte è cieca ma il risultato è visivo (…). Con la mano si codifica l’immagine visuale per l’occhio, che così può imparare a vedere e a comprendere. Nell’arte si è affermata per un periodo una scuola di pensiero che rifiutava l’esperienza, la manualità del lavoro e la fase esecutiva e che assegnava una funzione preminente alla creazione e alla vista. Si rifiutava l’operatività diretta; ma la creazione senza l’esperienza della mano è sterile (…)». La tattilità produce impronte, di cui il calco è proiezione. Didi-Huberman, curatore della mostra «L’empreinte» al Centre Pompidou nel 1997, fece di Penone un protagonista assoluto di quella straordinaria rassegna. Sfogliandone oggi il catalogo, è possibile ripercorrere alcune tappe fondamentali della ricerca dell’artista di Garessio, che a quel tempo stava stabilendo solidi legami culturali e professionali con l’ambiente francese (nel ’97 inizia tra l’altro a insegnare scultura all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi). Tra queste, le «Patate» (1977), un nuovo tentativo di compenetrazione tra corpo umano e natura. L’artista fece crescere i tuberi ancora giovani a stretto contatto con calchi in negativo di frammenti della propria testa (orecchie, naso, labbra); le patate, crescendo, modellarono la loro forma su quei calchi; Penone ne fuse in bronzo i risultati e li espose frammisti a patate vere e vive. Un’opera perfetta per la sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1986 diretta da Maurizio Calvesi sul tema «Arte e scienza», nella sezione «Wunderkammer» curata da Adalgisa Lugli. «Dagli anni Sessanta ad oggi, spiegava la giovane studiosa a “Il Giornale dell’Arte”, c’è una ricerca che passa dentro l’idea di meraviglia, magari senza dirlo esplicitamente, ma comunque frequentando molto da vicino i temi arte e natura, anche sotto altre etichette. Parecchi artisti che hanno lavorato nell’ambito dell’Arte Povera si possono riconoscere in una riproposta di materiali e forme insolite».
E così le patate antropomorfe di Penone convissero in quella bella sezione con l’antropomorfismo delle nature morte di frutta e ortaggi della scuola di Arcimboldo, un artista da copertina di «FMR» che, riscoperto dopo 400 anni, nel 1987 diventerà popolarissimo con l’esposizione curata da Pontus Hultén a Palazzo Grassi, aprendo così l’epoca delle mostre blockbuster.
Giuseppe Penone, «Alberi libro», 2017, e «Respirare l’ombra», 2000, Londra, Serpentine South. © Photo George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine
Il primo vero studio di Penone a Torino, dal 1976 agli anni Novanta, era in cima alla Galleria Umberto I, a Porta Palazzo; dall’altro lato della strada, in via Milano, c’era la casa studio di Mario (e Marisa) Merz. In pochi metri nel cuore di Torino, vissero così due artisti interessati alla natura e ai suoi archetipi: ma l’uomo degli igloo guardava alla natura nel suo proliferare, espandersi e moltiplicarsi; il suo giovane collega, invece, studiava la crescita e il tempo indagando a ritroso, verso le radici, le origini, come se percorresse al contrario, dall’esterno all’interno, la spirale nella quale Merz inscriveva lo schema grafico dello sviluppo naturale. Gli alberi e le «Anatomie» restano l’esempio più noto e chiaro di questo modus operandi. Era arrivato in città dopo gli studi in ragioneria, per iscriversi all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Scelse il corso di Scultura, a quell’epoca tenuto da Sandro Cherchi. Con Giuseppe c’era il fratello Vanni. Si accorse presto che cercava qualcosa che a scuola non poteva trovare, ma quando ancora oggi parla di «scorticare» alberi e minerali, a chi conosce un po’ le aule dell’Accademia viene in mente il calco dello «Spellato» (quelli più «moderni» vengono dalla gipsoteca Mondazzi, a due passi dall’Accademia, dei cui calchi si è servita un’intera generazione di artisti concettuali) al corso di Anatomia. In quegli anni, sulla parete dell’aula principale, c’era ancora la scritta «hic mortui vivos docent» (qui i morti insegnano ai vivi), che purtroppo non è di Orazio come pensavamo noi studenti. Le «anatomie» di Penone, invece, hanno il pregio di esaltare la funzione ammaestratrice della vita, e non della morte, anche nei materiali inanimati. Il marmo, ad esempio. Ne ha scritto Daniela Lancioni, in un ampio testo che abbracciava tutte le opere esposte da Penone nella personale da lei curata a Villa Medici nel 2008, ribadendone il portato tutt’altro che archeologico ma vitalistico, ispirate com’erano, quelle opere, alla leonardesca «forma dei fluidi», citata dallo stesso autore. Come aveva già fatto con le travi ricavandone alberi, Penone seguì il tracciato delle venature del marmo per ricavarne una sorta di apparato circolatorio. Scrive Lancioni: «(Penone) racconta (…) nella forma seducente della linea curva e dell’intreccio che dai tempi di William Hogarth sono definitiva garanzia di bellezza, la somiglianza del minerale a una materia viva: carne attraversata dai flussi sanguigni o fibra vegetale percorsa dalla linfa». In quel coltissimo testo, nel quale la storica dell’arte proietta il pensiero e l’opera di Penone in una costellazione spaziante da Paul Celan a Georges Bataille, appare anche un riferimento a Gian Lorenzo Bernini. E molto prima che, con la mostra del 2023 alla Galleria Borghese avesse luogo l’incontro reale delle sue opere con i miti ovidiani (in primis «Apollo e Dafne») narrati nei marmi di Bernini, Lancioni aveva parlato di sentimento barocco, proprio a proposito del rapporto arte-uomo-natura-metamorfosi, nel lavoro di Penone. Penone è barocco nel senso positivo dell’espressione allorché lavora appunto sull’osmosi tra corpo umano, corpo vegetale e corpo minerale, ma anche quando scrive di come la dura scatola cranica umana sia scavata, nelle sua complessa forma interna, da un materiale fluido, molle, il cervello in crescita (ne sono scaturite opere di grande suggestione visiva e di straordinaria eleganza grafica); lo è quando evoca la meraviglia come sentimento suscitato sia dalla scienza sia dall’arte; quando riveste una sala del Castello di Rivoli di parallelepipedi regolari di foglie d’alloro per «respirare l’ombra» (un analogo vegetale della stanza di Beuys rivestita di feltro) e il profumo delle foglie (ma diventa enfatico quando sente il bisogno di completare l’opera con la riproduzione scultorea di un apparato respiratorio di bronzo dorato); lo è quando dà forma scultorea al respiro, negli «otri» della serie «Soffio», calcati sul suo corpo e modellati con il suo fiato (e quando cita i filosofi per ricondurci al «soffio» come atto primigenio della creazione).
Ma non sempre il risultato visivo riesce a sfuggire alle insidie dal barocchismo. La ridondante «boiserie» di cuoio modellato su cortecce d’albero che rivestiva il suo spazio al Padiglione Italia del 2007 apparve ancora più greve a fronte del fake video di Francesco Vezzoli, l’altro artista scelto dalla commissaria Ida Gianelli in quell’occasione. I frequenti inviti in sedi auliche, gli interventi nei parchi storici, come a Versailles o a Venaria, devono avere risvegliato in lui il demone del «far grande» (o far troppo), con profusione di bronzo, ricorso al cristallo, indulgente cedimento all’arte come spettacolo.
La visione dei massi incastrati tra i rami degli alberi, come accade dopo la piena di un fiume, è affascinante e drammatica, ma si esaurisce e resta soltanto fotogenica nel momento in cui, con iperbole davvero barocca, Penone fa diventare quei blocchi levigati le foglie di pietra di alberi in un parco. La variante alla romana, due alberi di bronzo che campeggiano in cima al Tridente a Roma (sponsor Fendi) sostenendo un blocco di marmo scolpito e bronzi d’ispirazione archeologica, appare un troppo facile ammiccamento al genius loci, interpretato però con l’artificialità del souvenir.
L’albero sradicato e fuso in bronzo che sovrasta l’ingresso della Gam a Torino fa rimpiangere la poetica della processualità e della transitorietà del già citato pane che ormai tanti anni fa venne esposto in quella sede allo sguardo del pubblico e alla vorace fruizione-interazione degli uccelli; al confronto, persino l’ulivo (vivo e radicato in adeguata, speriamo, dotazione di terra) esposto da Maurizio Cattelan al Castello di Rivoli sembra più forte e incredibilmente più poetico nell’esibizionistica crudeltà dell’autore. Il grande tronco di bronzo che in un’area verde di Rotterdam («Elevazione», 2001), sorretto da cinque suoi simili (ma veri) sembra miracolosamente levitare, è indiscutibilmente «bello», ma alla fine i citati cinque vegetali che idealmente lo hanno sradicato dal terreno ricordano un po’ i boys coinvolti in un balletto di un’appesantita Valeria Marini. Perché anche per Giuseppe Penone, che fece la sua prima documenta a Kassel nel 1972 (nella mitica edizione griffata Szeemann) a soli 25 anni, per tornarvi nell’82 in quella quasi altrettanto leggendaria diretta da Rudi Fuchs; il Praemium Imperiale per la scultura nel 2014 (terzo poverista dopo Merz e Pistoletto), attivo per gallerie come Gagosian e Marian Goodman, noto e ammirato dall’Estremo Oriente all’America Latina, reattivo e come al solito prudente sotto il fuoco di fila di 474 domande fattegli da Alain Elkann per il libro che riporta le 474 risposte (Bompiani editore), universalmente amato perché l’albero e la natura, lo ha detto anche Francesco Bonami, sono argomenti vincenti, convincenti e chiari per tutti, ecco anche per un artista di questo calibro e di questa fama, una sorta di Kiefer italiano per la venerazione e il meritato rispetto che lo circondano, lo scivolone è sempre dietro l’angolo. Ora, sino al 7 settembre, Penone è impegnato in una vasta retrospettiva alla Serpentine Gallery di Londra. Sette anni fa, da queste parti, incappò in una delle rarissime obiezioni critiche. Mark Hudson, dopo aver visitato la sua mostra allo Yorkshire Sculpture Park, chiuse il suo pezzo per «The Telegraph», affermando di non essere «del tutto convinto della profondità delle affermazioni di Penone. Quando le sue pesanti inferenze filosofiche non si collegano perfettamente al soggetto, possono sembrare pesanti. (…) E sebbene la sua estetica essenziale sia minimale, se non proprio minimalista, ha un debole per gli elementi aggiuntivi gratuiti, come le figure contorte che si sviluppano dalla corteccia di bronzo di “Equivalenze” e che sembrano stranamente amatoriali. C’è forse qualcosa di particolarmente italiano nella passione di Penone per i materiali di lusso. Infatti, anche se non metto in dubbio che l’oro sia, come sostiene lui, una sostanza naturalmente assorbita dal corpo umano, ricoprire di foglia d’oro le parti interne devastate di “Albero folgorato”, un calco in bronzo di un albero colpito da un fulmine, non fa sentire più connessi alle glorie del paesaggio circostante, anzi».
Stavolta gli sta andando meglio, anche se certe perplessità ritornano nella recensione di Laura Cummings per «The Guardian»: «È come se i veri alberi all’esterno, spumeggianti di fiori primaverili, che corrono in viali che attraversano Hyde Park e Kensington Gardens, abbiano in qualche modo soffocato la sua ambizione (…). Gli alberi (veri, Ndr) sono così scultorei che l’analogia sembra quasi superflua. Le figure in bronzo che si contorcono fuori dai vasi, avvolte da fogliame in stile Uomo verde, sono purtroppo al limite del kitsch».
Resta il fatto che la poetica di Penone, anche quando dà origine a opere formalmente deboli, è perfetta per tempi, come i nostri, in cui la sostenibilità, l’ambientalismo, l’ecologia e la necessità di far pace una volta per tutte con la natura, sono temi che fanno palpitare i cuori dei suoi collezionisti ma anche dei suoi milioni di fan, tra i quali moltissimi giovani.
E poi, avremmo oggi un’artista come Chiara Camoni e le sue madri silvane, se non ci fosse stato Penone? Giorgio Andreotta Calò fa pensare a lui nel momento in cui rivela l’usura del tempo («grande scultore», come scriveva Marguerite Yourcenar) e delle maree sui pali di ormeggio della laguna veneziana. Renato Leotta, Andrea Caretto & Raffaella Spagna sono altri artisti appartenenti a quell’idea, assai penoniana, di «Mutual Aid. Arte in collaborazione con la natura», che ha dato il titolo, lo scorso inverno-primavera, a una mostra (Penone era tra gli espositori) curata da Francesco Manacorda e Marianna Vecellio per la Manica Lunga del Castello di Rivoli (però, anche in questo caso, perché andare oltre, mostrando diagnosticamente con una radiografia, un esemplare della quale è anche sul sito di Marian Goodman, il gesto dell’ormai celeberrima mano che stringe il tronco di un albero?). Ovviamente ciò che è importante e perfettamente riuscito nell’opera di Penone prevale di gran lunga su ciò che nella sua produzione più matura risente di un certo pompierismo, come inevitabilmente accade agli artisti di (meritatissimo nel suo caso) successo. Se i grandi artisti sanno rendere visibile ciò che non lo è, a volte capita che la visibilità che ne risulta sia pure troppa.
Ma la volontà, berniniana e barocca, di connettere l’arte della scultura alle metamorfosi della natura (Penone lo fa non solo nel marmo, ma anche nel bronzo, laddove le canne di fusione si tramutano in bronchi) è un obiettivo perfettamente conseguito nelle opere migliori della sua maturità. La ricerca di questo artista, che identifica la realtà nella natura, quindi nelle sue forme primigenie e nella sua nascita, crescita e morte, rinnova continuamente la sua attualità, come in questi tempi distopici in cui l’uomo sembra pervicacemente impegnato sul doppio fronte della distruzione della natura e di sé stesso. Ma al di là del suo portato ecologico, il suo lavoro riafferma la necessità dell’arte, del mito e della visionarietà in quanto veicoli di esperienza e conoscenza. In tal senso, Penone sviluppa e radicalizza con maggior vigore dei suoi ex compagni di strada il messaggio fondamentale dell’Arte Povera, laddove questa (per citare ancora Cicelyn) mostrò (e mostra) al mondo «che arte e realtà si forgiano insieme e si appartengono intimamente sin dal principio: come lingua e pensiero viventi».
Giuseppe Penone, «Idee di pietra», 2010-24. © Photo George Darrell. Courtesy Giuseppe Penone and Serpentine
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