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Carla Sozzani (Mantova, 1947) è una donna di cultura e un’imprenditrice di successo, gallerista e collezionista ma anche promotrice, già nel 1991, del primo «concept store» italiano, quel «10 Corso Como» («il nome lo scelse il sociologo Francesco Morace», ricorda ora) che, partendo da quell’indirizzo nel quartiere dell’Isola (allora una zona operaia e oggi, grazie a lei, più che mai alla moda), si è poi irradiato, con grande fortuna, a Tokyo, Seul, Shanghai e Pechino, ed è pronto a sbarcare a New York, portando anche lì i suoi spazi scintillanti, in cui la moda e l’arredamento dei più sofisticati designer s’intrecciano con l’arte visiva e i libri, fra ristoranti, caffè, pasticcerie, e tutto ciò che può rendere godibile la vita di chi sia dotato di buone sostanze ma soprattutto di grande gusto e di raffinate curiosità culturali. Un mix complesso di passioni e competenze, il suo, che lei riassume in quattro parole: «Sono una persona curiosa». Ora Carla Sozzani espone per la prima volta una scelta di 200 immagini della sua collezione di fotografia nella mostra «Entre l’art et la mode: la collection Carla Sozzani» (dall’11 novembre al 26 febbraio 2017), curata dal direttore del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Fabrice Hergott, per la Galerie Azzedine Alaïa a Parigi.
Signora Sozzani, lei ha iniziato nell’editoria, dove ha raggiunto, giovanissima, ruoli di vertice a «Vogue Italia» e a «Elle». Perché l’ha lasciata per fondare, nel 1990, la galleria Carla Sozzani?
Dopo diciannove anni nei giornali, tra il 1968 e il 1987, desideravo uscire da un mondo in cui non c’era ancora una comunicazione diretta con il lettore. Volevo avvicinarmi al pubblico e condividere le mie scelte. A Milano esisteva allora una sola galleria di fotografia, «Il Diaframma», e io, prendendo spunto da New York e Londra, dove andavo spesso per lavoro e dove già c’era una tradizione di collezionismo fotografico, decisi di dedicarmi a questa mia passione.
Fu con la galleria che avviò la sua collezione?
Non parlerei di «collezione», perché in realtà io raccoglievo ricordi. Ricordi che nel tempo, è vero, sono diventati arte. Ma avevo iniziato verso i trent’anni a conservare o acquistare immagini, quando ancora ero nei giornali. Non ho più smesso.
Il titolo della mostra, «Entre art et mode», riflette le due anime della sua collezione, che unisce fotografie d’arte da Man Ray a Moholy-Nagy e Francesca Woodman, e immagini dei maestri della fotografia di moda. A suo parere, ha ancora senso fissare un confine tra le due categorie?
Per me non è chiarissimo che cosa si possa intendere con «fotografia d’arte». Sì, oggi la s’identifica con le grandi fotografie a colori, ma per me quella non è nient’altro che una moda. E io, per formazione, amo il «classico» (tanto che la gran parte delle mie fotografie sono in bianco e nero). Comunque, no, non esiste alcun confine tra i due ambiti.
La sua mostra va in scena nella galleria parigina dello stilista tunisino Azzedine Alaïa che la definisce «ma sœur». Quando è nata la vostra amicizia?
È accaduto quarant’anni fa, quando ancora ero a «Vogue», e da allora fra noi non c’è stato mai uno screzio: ci siamo sostenuti a vicenda, abbiamo collaborato (da qualche tempo, anche con le nostre gallerie) ed è stato lui a convincermi a esporre parte della raccolta. Io non ci avrei mai pensato ma ora ne sono felice, perché esporre queste immagini è per me un altro modo di condividere ciò che amo.
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