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Stefano Causa
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Il «Giornale dell’Arte» in partnership con la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro ETS, impegnata da oltre 38 anni a dare un contributo significativo alla sconfitta del cancro attraverso le attività di cura e ricerca dell’Istituto di Candiolo-Irccs, dà vita a un focus mensile sul tema urgente, sinergico e osmotico di Arte e Terapia, partendo dall’Abstract dello studio di Ucl-University College of London sul Cultural Welfare sulla «ricaduta sui musei, con evidenze scientifiche da parte dell’Oms-l’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli obiettivi dell’Agenda 2030 e linee guida dell’Unione Europea sui finanziamenti alla cultura in questa ottica».
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È stato meno di quattro anni fa. Ma sembra un secolo che imparammo a muoverci indossando mascherine chirurgiche che negavano tre quarti del viso caricaturizzando con le orecchie a sventola parecchi di noi. Ci industriammo a parlare con lo sguardo. Chi era inespressivo perse ogni credito residuo. Ad avvantaggiarsi furono quelli dagli occhi ragionanti, per tradurre, goffamente, dalla lingua napoletana. Solo la bocca era fuori gioco; incluse le labbra che, in «Fino all’ultimo respiro» (1960), Jean Paul Belmondo accarezza di continuo con pollice e indice. Con le Ffp3 svanirono brillantezze del gloss. Tutti furono costretti a rivedere le strategie di visagismo e le tecniche di seduzione.
Pesti, carestie, morbi. Gli antichi ne trarranno smisurate occasioni di racconto. Nel 2019, un minuto prima che s’infittissero i morsi del Covid, si aprì al Petit Palais di Parigi, vicino ai Courbet e agli sconcertanti Cezanne giovanili, una mostra sul pittore seicentesco Luca Giordano, campione del tardo Barocco. In stanze arredate in viola o azzurro salì a parete l’ex voto con «San Gennaro che intercede per le vittime della peste». Difficilissimo da esporre in un museo, questo telero da chiesa presenta, come staccata dal resto, una porzione di carnalità aggressiva e dolente. Nella parte inferiore si stipano i cadaveri nudi che, ad altezza di naso, ti impongono pustole e fistole tra inguini e ascelle in un veridico atlante degli effetti di quella peste portata dai ratti che mise fuori gioco mezza Napoli.
Giordano, che la peste l’aveva scampata, usa ogni mezzo per scuoterci (compreso il bambino che tenta la tetta della madre morta e che rimarrà nelle agende dei maestri fino al Tiepolo della pala del Duomo di Este). Ma quando, in secondo piano, appare il monatto con uno straccetto bianco sul volto, che Manzoni terrà presente tra i ricordi figurativi del suo romanzo; solo allora fu chiaro a tutti di come il Covid-19, col suo teatrino tragico e semiserio, di morti veri e vaccini sì e vaccini no, fosse stato risucchiato nelle ansie dell’uomo barocco e la peste del 1656 avesse risucchiato la realtà moderna. Ugualmente un contemporaneo di Giordano, Micco Spadaro, alza la telecamera e riprende una piazza della Napoli vicereale come un invaso di cadaveri dove i muri di cinta pare trasudino miasmi e umori.
A ciascuno la sua peste. Giordano la rappresenta non per indurci a compatire i sommersi e i salvati, ma a dimostrazione di un virtuosismo senza confronti. Nell’«Elemosina di san Tommaso da Villanova», un tris di mosche banchetta col sangue della ferita della gamba fasciata del pitocco. Macchie nere e macchie rosse: dipinte velocemente, di prima, impossibile sbagliare, come se il pensiero non tenesse dietro alla mano. Quel dettaglio è definito in termini di naturalismo scientifico: ma per un primato che è pittorico e non naturalistico.

Luca Giordano, «San Gennaro che intercede per le vittime della peste», 1656

Luca Giordano, «Elemosina di san Tommaso da Villanova», 1658 ca
L’opposto di quanto si veda in uno dei quadroni di san Carlo del Duomo di Milano, il «Miracolo di Aurelia degli Angeli», dove un maestro lombardo nato alla fine del ’500, il Cerano, indugia in un realismo scrutinante o di medicina premoderna che non è né vuole proporsi come puro pezzo di bravura. Si vede la scena e non la tecnica. Si vede l’erisipela e non i giri di pennello che ci sono voluti per rappresentarla. Cerano, naturalmente, non è un virtuoso come Giordano anche se il particolare di quella gamba enfiata per il germe dello streptococco rivela la familiarità empirica con ospedali, lazzaretti e teatrini anatomici.
Giordano è pittore e basta. Cerano, di sensibile riflesso, medico e cerusico. Aggiungi che, dinanzi al «Trionfo della Morte», i sudditi spagnoli non avrebbero mai rinunciato alle lusinghe dello stile ed è per questo che a Napoli Caravaggio ha avuto, tutto sommato, scarsa fortuna. Ma chi ha saputo davvero apprezzare e restituire verbalmente questi esercizi di stile sul tema della malattia e del disagio non sono stati gli addetti ai documenti figurativi.
Nel 1950 lo scrittore storico d’arte Roberto Longhi, mise a punto nuove istruzioni per la critica d’arte. Proposte volle chiamarle: con una cautela lessicale che non tutti sono disposti a riconoscergli. Si chiese se i migliori, tra i critici, fossero non solo o non tanti quelli di mestiere, quanto, piuttosto, gli scrittori, gli amatori, i poeti. Avrebbe potuto aggiungere: i fotografi, i registi, i musicisti e gli illustratori di copertine di dischi. E dovremmo dire a questo punto: i medici.
Tutti o quasi tutti. Dermatologi, oculisti, ginecologi, andrologi, proctologi, cardiologi, pneumologi, oncologi, dentisti, otorinolaringoiatri e ortopedici. Eventualmente, virologi e, profumo dei tempi nostri e non dell’Italia del dopoguerra, dietologi e chirurghi estetici. A loro, a maggior titolo che a noi che scriviamo, converrebbe accompagnarsi in una visita a immagini che si accendano nella rappresentazione di corpi e situazioni segnate dalla malattia; dal difetto che diventa marchio, destino o patente di riconoscibilità. Visitare un museo con un medico è una delle esperienze più inedite e singolari che possa accadere ad uno storico d’arte.

La copertina dell’album «In the Court of the Crimson King» (1969) dei King Crimson
«Arte e malattia o malattia come arte?», proposi alcuni anni a un consesso di medici di diverse specialità. Finito di parlare, qualcuno, per gioco, mi chiese di scegliere così, su due piedi, un’opera per ciascuna professione. Il gioco era allettante e ci promettemmo di riaffrontarlo più diffusamente.
Un quadro da studio ginecologico? Conosco uno dei migliori del Paese, Antonio Civetta, che a Napoli aveva una maxiriproduzione delle «Tre età della donna» (1905) di Gustav Klimt. Quanto all’immagine perfetta per un dermatologo: difficile non pensare al ritratto tardoquattrocentesco di «Nonno e nipote» del fiorentino Domenico Ghirlandaio, dove a prendersi la scena è il rinofima sul naso del più anziano. Alla voce dentisti non saprei pensare a immagine più incisiva (è il caso di dire) della copertina del primo album dei King Crimson, «In the Court of the Crimson King», uscito a Londra nell’inverno ’69. Ma proviamo a immaginare se, dinanzi a uno degli apici del realismo moderno, il riquadro di Masaccio della Cappella Brancacci con «San Pietro che risana gli infermi con la propria ombra», uno specialista mettesse a fuoco i punti topici, pro domo sua, di quel gruppo di famiglia in un esterno, partendo dalle gambe atterrate al suolo dello storpio immaginando, di qui, una storia di eventuali e confortanti miracoli fisioterapici. E quale sarebbe il medico giusto per dare qualche speranza al ragazzo di Jusepe de Ribera dal piede equino che, nelle sale degli spagnoli seicenteschi del Louvre a Parigi, campa per strada chiedendo l’elemosina per amore di Dio? Quanto ai mali dell’orecchio, il Van Gogh delle raccolte del Courtauld di Londra, eseguito due anni prima della morte e un anno dopo l’ultima mostra degli Impressionisti, sembra aver risolto il problema a monte e sia pure solo superficialmente.
Da ragazzo ebbi la chance di visitare le sale di Capodimonte col mio padrino, rinomato oculista vesuviano che, con il massimo rispetto per quanto visto sino ad allora, raddoppiò l’attenzione e non ebbe occhi, comprensibilmente, che per la «Parabola dei ciechi» di Pieter Brueghel, il dipinto fiammingo del ’500 più importante conservato nell’Italia meridionale. Quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un fosso. Brueghel fu sedulo nel descrivere le varie patologie oculari dei sei di cui il penultimo a destra (che tra un secondo cadrà, appunto, come chi lo ha preceduto) è l’unico a chiamarci in causa. Ossia è il solo a guardarci senza guardarci lasciandoci in eredità uno sguardo che squilla, nella sua vuotezza di finestra cieca, come un monito perentorio a vedere. Eseguita negli anni del Concilio di Trento, questa tela orizzontale, incentrata sulla parabola di san Matteo, costituisce un inno al mestiere di vedere nel momento stesso in cui prende a soggetto principale la sua negazione.

Domenico Ghirlandaio, «Ritratto di vecchio con nipote», 1490 ca

José de Ribera, «Lo storpio», 1642, Parigi, Musée du Louvre
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