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Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliDoveva essere una visita di routine, come tutte le altre. Mammografia, ecografia e via, per un anno non ci si pensava più. Ma questa volta qualcosa di diverso c’era. Il dottore si attardava con il microfono dell’ecografia cosparso di un liquido vischioso e andava su e giù su un quadrante del seno senza dire nulla. «Ma c’è qualche problema? Qualcosa che non va?». Mi tirai leggermente su un po’ allarmata per quel troppo lungo girare sullo stesso punto. Avevo fretta, dovevo tornare in casa editrice a finire di correggere le ultime bozze di un libro importante, quella perdita di tempo mi pareva una seccatura inutile. Ma il dottore non parlava e girava sempre più stretto con il microfono su un punto preciso. Era un amico oltre che un grande clinico e cominciai a guardarlo preoccupata, mi curava da anni e mai aveva fatto così. «Insomma che cosa c’è?». «Mah... qualcosa che non va, una cosa... l’anno scorso non c’era, non capisco». Aveva capito benissimo invece. «C’è una cosa non grossa, forse sui tre quattro centimetri, a forma di stella». «A forma di stella? Allora è un tumore». «Dai, non è detto, potrebbe essere una cosa da niente, ma domani mattina vieni in clinica che facciamo esami più approfonditi». Ero sufficientemente informata per sapere che cosa vuol dire in questo caso la forma di stella.
Per una di quelle associazioni di idee che sono il tormento di una che si occupa d’arte per 24 ore al giorno (anche nei sogni), cominciarono a pararmisi davanti immagini che prendevano vita nella mia mente, accompagnate pure da sinestesie non richieste. Si manifestarono stelle cadenti, vive e colanti di giallo, dove quel giallo dava fastidio e aveva anche un cattivo sapore, o sotto forma di astri maligni come quelli che cadono dal cielo nell’Apocalisse del Beato di Liébana, o quelli di Cristoforo de Predis che precipitano su una terra desolata secondo la profezia di Cristo nel Vangelo di Marco (13,24-32): «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte».
Il mondo mi precipitava addosso, era come schiantarsi a duecento allora contro un muro. Perché mi capitava? Si impara poi a proprie spese, che è un domanda stupida e che non ha risposta.

Cristoforo de Predis, «Morte del Sole, della Luna e caduta delle stelle», miniatura-illustrazione da «Storie di san Gioachino, sant’Anna, di Maria Vergine, di Gesù, del Battista e della fine del mondo», XV secolo, Biblioteca Reale di Torino
Era fine ottobre. Uscii da quella clinica in una serata velata di nebbia che rendeva quel quartiere precollinare tanto elegante e gaio di giorno, un luogo dove far aggirare Jack lo squartatore, come in certi quadri di John Atkinson Grimshaw (1836-93). La mattina dopo, in clinica, mi fu fatto l’agoaspirato, un’analisi che consente di prelevare attraverso un sottile ago materiale biologico per poi studiarlo in caso di sospetto di tumori. L’ago era lunghissimo e non c’era anestesia: mi fu detto che non era doloroso e sarebbero stati rapidi. In realtà quello spadino, neanche tanto sottile, penetrò nella carne come una pugnalata: mi venne in mente che era capitato a molte martiri di essere pugnalate così solo che poi quelle dei quadri, sorridenti e distese, andavano in Paradiso con una carrozza cherubica. A me non successe.
Pensavo al «Martirio di santa Lucia» di Paolo Veronese (National Gallery of Art di Washington) dove un bruto affonda un pugnale nel seno candido di lei, che, come niente fosse, si volta seccata e con movenze regali verso un sacerdote che le dà la comunione. Al pugnale non fa assolutamente caso, neanche fosse una spilla da appuntare. A me invece quell’ago fece male. E non strillai solo per vergogna. Poi cominciò una lunga attesa. Per l’esito ci volevano almeno quindici giorni. Quando si aspettano sentenze di questo tipo ci sono due soluzioni: una, stile armata di Brancaleone, con la bella vedova disponibile a tutto e che dichiara al povero Brancaleone «cucurucù, pecchiamo et godiamo tanto c’è la peste»; e l’altra, da gesuiti, con indagine accurata sulla propria coscienza, raccoglimento, silenzio, riflessione profonda, preghiera e conseguente pentimento, che però dovrebbe durare quattro settimane. Veramente troppo anche per i santi. Scelsi di fare finta di niente.
Ma le sentenze arrivano. Sempre. L’oncologa, magra, secca, severa (ci litigammo subito ferocemente, anche se in seguito divenne una delle mie più care amiche), annunciò il risultato: maligno, al terzo stadio, da operare subito. Minosse, giudice infernale, non poteva essere più spaventoso; «Stavvi Minos orribilmente e ringhia /esamina le colpe nell’intrata / giudica e manda secondo ch’avvinghia». La coda alla dottoressa si era arrotolata quel tanto da dare come esito che venivo spedita a Candiolo per ulteriori accertamenti.

John Atkinson Grimshaw, «A Wet Moon, Putney Road, 24», 1886
Candiolo è un ospedale di eccellenza, punto di riferimento in Piemonte per le cure del cancro, guai se non ci fosse. Solo che sta poco oltre la Palazzina di Stupinigi, isolato fra boschi che mi parvero più scuri e sinistri di quello che già erano. Ipotizzai anche fossero abitati da bestie fameliche che si disputavano a brani i defunti dell’ospedale, forse ci si aggiravano fantasmi.
Ci entrai una mattina di novembre con il terrore addosso e fu come attraversare l’Acheronte, anche se da quelle parti scorre solo un pacioso torrentello di nome Chisola che nulla ha a che fare con il fiume infernale. Mi infilarono nel macchinone della risonanza magnetica dopo avermi attaccato una flebo per braccio e messo alle orecchie delle cuffie con musica a palla di Vasco Rossi. La macchina oscillava, muoveva, faceva comunque un rumore infernale, quella maledetta musica di Vasco nelle orecchie mi stordiva, mi sembrava di volare, ma non era l’ippogrifo, piuttosto Gerione, il mostro con il volto di uomo, il busto di serpente, le zampe di leone e coda di scorpione, che al volo porta Dante e Virgilio nelle discesa alle Malebolge come in una incisione di Bartolomeo Pinelli.
E poi venne il giorno dell’operazione, dopo una notte insonne e mille domande su come mi sarei ritrovata il giorno dopo. Deturpata? Tagliuzzata? Morta per effetti secondari? E senza aver detto niente a mia madre per non spaventarla. Prima dell’anestesia la chirurga dichiarò che a lei operare la rilassava e faceva l’effetto del bricolage... Meno male. Prima dell’anestesia mi chiesero di pensare a un posto dove avrei voluto essere e risposi che volevo stare solo nel Duomo di Siena (e continuo a pensarlo ancora oggi). Poi il buio.
Ci sono due quadri che raffigurano sant’Agata e che mi hanno sempre fatto un’impressione al limite della ripugnanza, anche se bellissimi: uno è la sant’Agata di Francesco Guarino del Museo di Capodimonte e l’altro «Il martirio di sant’Agata» di Tiepolo, già nel convento delle Benedettine di Lendinara, ora alla Gemäldegalerie di Berlino (rubato dai soliti francesi). Nel primo la bella santa con gli occhi rossi, terrea in viso, si regge sul petto un panno tutto intriso di sangue vero, fresco, denso, rosso vivo, che cola ancora e pare di sentirne l’odore dolciastro. Nel secondo le cose vanno ancora peggio, la santa è in ginocchio, esangue, con il viso stravolto dal dolore. Una donna pietosa le preme sul petto un lembo della sua veste per fermarle l’emorragia (anche qui sangue dappertutto) e un’altra, indifferente e dallo sguardo cattivo, solleva su un vassoio i due seni tagliati e sanguinolenti osservati, come trofei, con soddisfazione, da tre ceffi. Che orrore, non si può quasi guardare.

Francesco Guarino, «Sant’Agata»

Giovan Battista Tiepolo, «Il martirio di sant’Agata», 1755 ca
Al risveglio ero tutta fasciata, con le flebo, la testa che girava un forte dolore al lato sinistro del petto, più o meno come sant’Agata. Ma mi scossi e mi misi seduta: non volevo arrendermi e in seguito imparai che questa deve essere la regola. I miei cari (i due a cui avevo concesso nel massimo riserbo di accompagnarmi) mi guardavano con aria preoccupata, ma io ostentavo sicurezza (che non avevo) e alla sera firmai per tornare a casa a cena e farmi vedere viva da mia madre. Che mi disse, quasi citando Fruttero e Lucentini: «Ti trovo un po’ pallida».
Con in corpo la stessa quantità di sonniferi che servivano per bloccare un animale di grossa taglia nella savana cercai di dormire, ma neanche l’Innominato aveva mai dormito così male fra incubi e visioni alla Bosch. Tutta la notte mi passarono davanti uova che camminavano e uccelli di mal passo che si fermavano a parlarmi (e a cui rispondevo).
Al mattino la città era coperta da una fittissima nevicata e io avevo un nuovo problema. Tutta l’impalcatura di fasce in cui mi avevano sapientemente avvolta e che mi faceva sembrare una mummia del periodo tolemaico (mancavano i bordini dorati e decori a perline blu) cominciò a bruciarmi e a farmi male come la camicia di Nesso. Era una devastante allergia ai cerotti di cui non avevo mai sospettato l’esistenza. Slittando con l’auto e rischiando di finire direttamente nel Po, tornai in clinica implorando Osiride e tutti i medici e fui sbendata con un effetto orrendo: tutta la pelle restava attaccata alle bende e io sembravo san Bartolomeo scuoiato. Ed ecco un altro martire dalla morte disgraziata farsi avanti nella mia mente in un quadro di Stefan Lochner da poco tempo visto allo Städel di Francoforte dove il santo era preda di un gruppo di macellai che lo scorticavano senza pietà tanto che pareva di sentire proprio lo strappo secco della pelle che si separava dai muscoli.
Poiché tutto passa, anche questo orrido postoperatorio passò e poi venne il tempo delle cure. I tumori hanno infatti tempi di cura e guarigione (se va bene) tutti loro. Rifiutata la chemioterapia, fui però obbligata a fare la radioterapia, che ingenuamente pensai più leggera e meno dannosa. E fu un altro viaggio all’inferno. Questa volta oltrepassai le porte della città di Dite, quella dalle mura di ferro infuocate che parte dal sesto girone e scende giù.
Le macchine della radioterapia sono molto grandi e stanno solitamente sottoterra, schermate con ogni cura, separate da tutti gli altri spazi. Sono macchine che utilizzano radiazioni di elevata energia chiamate radiazioni ionizzanti, che vengono dirette sulla massa tumorale, con un braccio pilotato dall’esterno. È certamente una grande invenzione e si può cercare di rendere l’ambiente dove si esegue questa pratica gradevole quanto si vuole, ma è un posto gelido (di temperatura) dove le voci dei dottori giungono attutite e solo per dare ordini. La macchina spara le radiazioni in un punto preciso con un rumore di mitragliatrice alternato a un soffio ansimante e sembra di stare nelle fauci di un mostro. Pensavo ad Andromeda che sta per essere mangiata dal mostro, magari a quella di Paolo Veronese del Museo di Rennes dove la bestiaccia ha una bocca spalancata con una fila di denti aguzzi che la fanno sembrare una sega elettrica ad alta efficienza. In nessun altro posto ho sperimentato una solitudine così totale e paurosa: l’impressione era quella che ci fossimo solo io e la macchina che doveva eliminare Alien e che stritolava anche me.
La radioterapia brucia i tumori, ma brucia anche la pelle, e per quanto uno si spalmi di creme fino ad assomigliare a un fluffy pancake giapponese, alla fine si ritroverà piagato come Giobbe, a meno che al posto della pelle non abbia cotica. E anche il povero Giobbe viene a proposito in queste circostanze: era ricco e divenne povero, aveva tanti bei figli e gli morirono tutti, si ammalò, finì per rifugiarsi in un letamaio preso in giro anche dalla moglie e non si lamentò mai. E Dio gli ridiede tutto quello che aveva perso dieci volte tanto. Un esempio, ma solitamente non capita così e io mi lamentai, e anche parecchio. E fra un guaito e l’altro mi ricordai di aver ammirato fin da ragazza al Musée d’Orsay un Giobbe di alta spiritualità dipinto da Léon Bonnat nel 1880, dove il povero uomo appare proprio aver toccato il fondo, seduto al suolo, sporco, rimasto perfino senza mutande.

Arnold Böcklin, «L’isola dei morti», 1880-86, Berlino, Alte Nationalgalerie
I mesi trascorsi dalla diagnosi alla fine di tutte le cure mi sono parsi lunghissimi, a volte estenuanti. Mi sembrava di camminare in una valle oscura fra due alte pareti coperte di piante cupe e fitte, in una natura per niente amichevole. Il cielo era altissimo e lontano, le stelle praticamente non si vedevano e il viaggio pareva senza fine, come in certi quadri di Arnold Böcklin, dove tutto è mistero o rovina, ci sono gole strette sorvegliate da draghi e l’approdo è l’isola dei morti.
No, non è un percorso facile e rabbrividisco tutt’oggi quando sento dire con aria trionfante di un malato che dopo qualche mese di cure ha sconfitto il cancro e lo annuncia giulivo su tutti i mezzi di comunicazione possibile. Non funziona così. Dopo si resta sorvegliati speciali per anni e, solo se andrà tutto bene, a poco a poco l’evento diverrà un ricordo che però difficilmente sarà possibile dimenticare. C’è un prima e c’è un dopo, e il dopo si carica di valori ed esigenze prima trascurate se non sconosciute. Si può diventare migliori o almeno provarci, si può ricordare la folla misera che aspettava le terapie: sciancata, dolorante, a volte con la morte in faccia, e quella ragazzina giovane giovane che tutte le mattine veniva a fare radioterapia, con un cappellino di lana sulla testa ossuta e calva, un corpicciolo scheletrito, un visetto esangue dove gli occhi celesti non brillavano più: si metteva sempre in un angolo e aspettava il suo turno. Sarà ancora viva? Ce l’avrà fatta? E allora si può diventare pietosi per sé stessi e per il destino dell’umanità.
Ma nei sogni, a brandelli, il ricordo torna a volte a tormentare, come negli incubi di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) e l’inquietante cavallo spettrale con gli occhi vuoti, la Nightmare, la cavalla della notte, ti assale all’improvviso con il suo carico di paure e angosce e ne senti giungere il nitrito e lo scalpiccio degli zoccoli. Da qualche parte è nascosta e prima o poi verrà a prenderci tutti.
E allora meglio pensare alle cose belle che ornano la vita, all’amore, alla musica, all’arte.

Johann Heinrich Füssli, «L’incubo», 1781, Detroit Institute of Arts
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