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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliPalazzo Grassi dedica il piano superiore a un ampio progetto espositivo di Amar Kanwar (1964), artista e filmmaker indiano, con la presentazione di «The Peacock’s Graveyard» (2023), opera parte della Pinault Collection. L’installazione costituisce il fulcro del percorso e si inserisce in una sequenza di lavori che permettono di leggere in modo organico la ricerca dell’artista, sviluppata nel corso di oltre trent’anni tra cinema documentario, installazione e archivio. «The Peacock’s Graveyard» è una grande installazione video composta da un insieme di proiezioni distribuite su sette schermi. Le immagini, di carattere lirico, compaiono e scompaiono in modo alternato e simultaneo, costruendo un percorso visivo astratto all’interno dello spazio espositivo. La disposizione dei sette canali crea una sequenza che l’artista definisce come una sorta di «haiku visivo» – ovvero una sequenza di immagini brevi e autonome che, accostate nello spazio, costruiscono un significato per frammenti, senza una narrazione lineare. Alle immagini sono sovrapposti testi scritti da Amar Kanwar. Si tratta di racconti che attingono a narrazioni tramandate e a storie orali, intrecciando tradizioni folkloriche antiche e contemporanee con elementi di esperienza personale. L’opera propone così un punto di osservazione che mette in relazione dimensione collettiva e individuale, invitando a riflettere su forme di sapere non canoniche.
Dal punto di vista formale, Kanwar utilizza diverse modalità di montaggio ed elaborazione delle immagini, allontanandosi dalle strategie documentarie adottate in precedenza. «The Peacock’s Graveyard» suggerisce infatti la necessità di una riorganizzazione metafisica del pensiero, come condizione per immaginare altri modi di abitare il mondo. L’opera si inserisce nella continuità della ricerca dell’artista, fondata sull’idea che razionalità e potere non esauriscano le possibilità dell’esperienza umana. Kanwar descrive l’opera non come un lamento o un «atto di commemorazione», ma come un insieme di storie, alcune antiche e altre contemporanee, pensate come strumenti da accompagnare alla vita quotidiana. Secondo l’artista, queste narrazioni offrono una base per riflettere sull’arroganza, sulle illusioni e sulla propensione alla violenza che attraversano le società contemporanee, contribuendo a ripensare ideologie, politiche, forme di solidarietà e movimenti sociali.
Questa impostazione trova le sue radici nella formazione e nell’esperienza personale di Kanwar. Il suo lavoro è profondamente legato alla storia post-coloniale del subcontinente indiano, ancora condizionata dalle conseguenze della Partizione del 1947. I suoi film e le installazioni multimediali analizzano le dinamiche di potere, violenza e giustizia, soffermandosi sull’esodo interno di milioni di musulmani e indù, sulle relazioni conflittuali tra India e Pakistan e sulle violazioni dei diritti umani e ambientali commesse in nome dello sviluppo economico.
Amar Kanwar, «Such a Morning», 2017. Installation view, Neue Galerie, Kassel, documenta 14. Credits Mathias Völzke.
L’origine di questo percorso è ricondotta dall’artista a due eventi avvenuti nel 1984, quando Kanwar era studente di storia all’Università di Nuova Delhi. Da un lato, l’assassinio della prima ministra Indira Gandhi e le violenze che seguirono contro la comunità sikh; dall’altro, il disastro industriale di Bhopal, provocato dalla fuoriuscita di gas tossici da un impianto di produzione di pesticidi di proprietà americana. A partire da questi episodi, Kanwar intraprende prima l’attivismo politico e poi il cinema documentario, iniziando a viaggiare nel paese per raccogliere prove e testimonianze.
Da questa fase nascono opere come «A Season Outside» (1997), dedicata alla militarizzazione del confine tra India e Pakistan, «The Torn First Page» (2004–2008), che documenta la resistenza del popolo birmano durante la dittatura militare, «The Lightning Testimonies» (2007), incentrata sulle esperienze di donne vittime di stupro, e «To Remember» (2008), che rilegge il pensiero non violento di Gandhi alla luce dei recenti conflitti interreligiosi. Questi lavori costituiscono il nucleo di una pratica che unisce indagine storica, testimonianza diretta e costruzione narrativa.
Nel contesto di Palazzo Grassi, questi lavori contribuiscono a delineare un quadro coerente della pratica di Kanwar, che utilizza l’arte come strumento di indagine e di presa di posizione. Il suo lavoro mette in luce sia la nascita di movimenti locali di opposizione all’espropriazione delle terre sia episodi di corruzione che coinvolgono amministrazione e sistema giudiziario, restituendo una lettura articolata dei conflitti sociali, politici e ambientali che attraversano l’India contemporanea.
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