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Bridget Riley: «Copiare Seurat mi ha permesso di comprendere il pensiero pittorico»

La mostra «Bridget Riley: Point de départ» al Musée d’Orsay, curata da Karen Serres e Barnaby Wright, esplora il legame tra la giovane Bridget Riley e Georges Seurat, analizzando come il puntinismo e il cromoluminarisme abbiano influenzato il suo approccio al colore e alla percezione visiva

Nicoletta Biglietti

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Tutto inizia con un incontro. È il 1949 e Bridget Riley ha diciotto anni quando entra alla National Gallery di Londra. Davanti a lei, «Bagnanti ad Asnières» di Georges Seurat. Si ferma. Guarda. Non trova subito una risposta a ciò che la trattiene davanti al dipinto, eppure qualcosa resta. Dieci anni dopo ritorna idealmente a quell’immagine, con la curiosità di capire come Seurat costruisca la luce e faccia dialogare i colori. Il contesto sociale o il paesaggio non la interessano. Decide così di copiare «Il ponte di Courbevoie», non dall’originale, ma da una riproduzione in un libro pubblicato da Faber & Faber. È un esercizio di studio, un laboratorio in cui ogni pennellata diventa un esperimento e ogni colore una scoperta. Riley impara a disporre i toni, creare contrasti, generare vibrazioni visive. Quello che scopre è un principio che continua a nutrire la sua pittura e che è al centro della mostra «Bridget Riley: Point de départ», al Musée d’Orsay fino al 25 gennaio 2025.

«Copiare Seurat», dirà più tardi, «mi ha permesso di comprendere il pensiero pittorico». Non è solo tecnica, è percezione. È capire come un dipinto possa funzionare secondo regole proprie. Proprio per questo, Riley approfondisce il metodo di Seurat, morto nel 1891 a soli 31 anni, e scopre il cromoluminarisme, il puntinismo applicato con rigore scientifico. Seurat usa punti di colore puro che l’occhio mescola, generando sfumature e movimento. Riley apprende come la giustapposizione dei colori sia fondamentale per la percezione. Copiare «Il ponte di Courbevoie» diventa una lezione magistrale: «la migliore lezione che abbia mai avuto». La sua versione, ancora oggi appesa nel suo studio, non è una replica fedele, ma una trascrizione del metodo, uno strumento per adattarlo al proprio linguaggio.

Questo processo di apprendimento e sperimentazione si inserisce nel contesto della vita e della formazione di Bridget Riley. Da giovane, cresce tra Londra, Lincolnshire e Cornovaglia, esplorando liberamente l’ambiente circostante. Nei vent’anni, mentre studia alla Royal Academy of Art, curiosità e spirito sperimentale vengono scoraggiati dai professori. La laurea la trova insicura di sé, e le difficoltà familiari la costringono a prendersi cura del padre ricoverato in ospedale, portandola a un crollo personale. Il punto di svolta arriva nel 1956, quando visita un’esposizione degli Espressionisti Astratti alla Tate di Londra. Il loro lavoro le conferma la possibilità di esplorare la propria visione. Riprende a dipingere, insegna arte e lavora come illustratrice, seguendo corsi estivi con Harry Thubron, che le mostra il potere delle relazioni spaziali, delle forme e dei pattern.

Nel 1960 si trasferisce in Italia e studia i Futuristi, approfondisce l’opera dei Divisionisti e di Seurat, cercando di trasformare la superficie dei dipinti per influenzare la percezione. Capisce che le immagini rappresentative distraggono. Elimina figure, quadrati e cerchi, semplificando il linguaggio visivo. Lavora con bianco e nero e con elementi di linea e forma. Nel catalogo della mostra «The Responsive Eye» (1965, MoMA) il curatore William C. Seitz definisce le opere di Riley «la nuova arte percettiva», interrogandosi su quanto un’opera autonoma possa generare emozioni e idee solo attraverso la percezione.

Georges Seurat (1859-1891), Étude pour «Les Poseuses», 1887, Huile sur bois Collection particulière. © Photo Patrice Schmidt.

Negli anni ’60, Riley esplode sulla scena con lavori in bianco e nero, illusioni ottiche che creano movimento, instabilità e dinamismo. Il suo obiettivo va oltre l’effetto: vuole comprendere come l’occhio percepisce i colori, come reagiscono le emozioni agli stimoli visivi. Nel 1966 introduce il colore, studiando e copiando «Il ponte di Courbevoie» di Seurat. Scopre come i colori posti uno accanto all’altro in modo ponderato creino un senso di movimento. Comprende che il colore cambia; non è stabile. Accostato a un complementare si accentua, al nero sembra più scuro, bordato di bianco appare più chiaro. La percezione del colore avviene nella mente, e Riley impara a orchestrarla.

Negli anni ’70 e ’80 concentra la ricerca sulle strisce, eliminando forme complesse. Le strisce permettono lo studio della ripetizione, essenziale per far percepire il colore in modo intenzionale. Lavora con combinazioni orizzontali e verticali, dritte o ondulate, testando ogni combinazione su piccoli fogli prima di trasferirla su grande tela. L’evoluzione dei colori lungo la striscia genera il senso di movimento.
Il colore diventa centrale: la sua «musica». Riley condivide la convinzione di artisti come Seurat, Giacomo Balla, Sonia Delaunay e Josef Albers, che il colore evoca risposte emotive. Le sue note rigorose registrano combinazioni e pattern, per poter ripetere esperimenti e approfondire scoperte. Pur apparendo scientifici, gli esperimenti sono artistici: cercano di manifestare ciò che è ancora ignoto.
Anche il tono è fondamentale. Seurat perseguiva contrasti, delineando figure scure con aloni chiari, figure chiare con ombre più scure. Riley fa lo stesso, ma i suoi dipinti geometrici sembrano fluidi, le strisce increspate e ondulate, le forme si ergono sulla tela. «Tremor» (1962) crea l’illusione di un paesaggio tridimensionale, grazie a file di triangoli con bordi convessi e concavi che simulano luce e ombra.

L’esposizione al Musée d’Orsay rivela la continuità tra Seurat e Riley. La galleria postimpressionista, al quinto piano, con vista sulla Senna, mostra come Riley si confronti con la tradizione neoimpressionista. Non è solo «op artist» o «artista astratta donna». Qui emerge come divisionista contemporanea e postimpressionista moderna. La mostra approfondisce il metodo di Seurat come impulso creativo. Ogni sala costruisce un dialogo tra passato e presente, tra rigore e intuizione. I curatori Karen Serres e Barnaby Wright hanno esposto i dipinti di Riley accanto a quelli di Seurat, separandoli con una porta per evitare confronti diretti. Altri esperimenti puntinisti di Riley, come «Pink Landscape» (1960), testano toni di rosa e blu, anticipando il linguaggio delle strisce. Le strisce sono punti allungati, evoluzione dei puntini di Seurat, conversazioni tra i colori senza figurazione. Sylvain Amic, presidente del Musée d’Orsay, sottolinea: «Bridget Riley merita pienamente un posto nelle gallerie postimpressioniste. «Point de départ» è un inizio e allo stesso tempo un punto di partenza».

Oggi Riley ha oltre novant’anni e continua a dipingere con infinita "precisione". L’esperimento del 1959 pulsa ancora in ogni serie successiva. Ogni pennellata, ogni striscia, ogni combinazione di colori mantiene vivo il dialogo tra luce, colore e movimento. Perché quel punto di partenza non è mai stato un punto d’arrivo, ma un percorso in continua evoluzione.

Bridget Riley, «Early Colour Work – Circles», 1970-1972 (2009). Credits Prudence Cuming Associates. © Bridget Riley 2025. All rights reserved

Nicoletta Biglietti, 14 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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