Vincenzo de Bellis saluta gli States

Sei, impegnativi, anni al Walker Art Center si sono chiusi con la grande retrospettiva di Jannis Kounellis, ultimo atto curatoriale prima di iniziare con il nuovo incarico di Art Basel

Il Walker Art Center a Minneapolis
Vincenzo de Bellis |

Scrivo questo pezzo la sera prima di partire e rientrare in Europa, colto da un irrefrenabile raptus nel voler testimoniare il momento o forse solo per evadere dall’ossessivo e incessante preparare pacchi e inscatolare la mia vita e quella della mia famiglia. E allora è tempo di bilanci, di questi sei anni e, quando dico sei anni, la gente mi risponde che non è possibile, che il tempo è volato.

È vero, sono stati anni che abbiamo divorato tra l’arrivo, un primo momento di orientamento, poi l’adeguamento alla nuova vita e cultura, poi finalmente l’integrazione, infine la stasi per poi passare alla deflagrazione del 2020 e i successivi due anni spesi a capire che cosa era successo nel mondo e in particolare qui a Minneapolis. Oggi, in uno dei saluti più significativi che ho ricevuto, un mio collega mi ha detto che sono arrivato in punta di piedi e che me ne vado con lo squillo delle trombe: forse lo dice perché non ne poteva più di me e, in fondo in fondo, concedetemi la battuta che ho fatto anche a lui, la mia partenza libera un po’ la strada.

Sono stati sei anni, ma vi assicuro che a me sono sembrati dodici. Per gli standard di un museo grosso e complesso come il Walker, infatti, più o meno la media delle mostre curate sono una ogni due anni o al massimo una ogni 18 mesi, specie e soprattutto per chi come me non ha solo compiti curatoriali. E invece ho avuto l’onore e anche l’onere di organizzarne più di una all’anno. In ordine cronologico: «Jimmie Durham: At the Center of the World» (2017); «I Am You, You Are Too» (2017); «Nairy Baghramian: Deformation Professionelle» (2017); «Mario García Torres: Illusion Brought Me Here» (2018); «The Paradox of Stillness: Art Object and Performance» (2021); «American Art 1961-2001: the Walker Art Center Collections from Andy Warhol to Kara Walker» (2021); e infine «Jannis Kounellis in Six Acts» che ha aperti il 14 ottobre.

Ma non solo questo, che alla fine è anche la parte più facile del nostro lavoro. In questi sei anni ci sono stati eventi tra il drammatico e il catastrofico, partendo dall’elezione di Trump, seguita a strettissimo giro dalla crisi personale del direttore artistico del museo, che era la persona che mi aveva fortemente voluto, culminata nel suo licenziamento in tronco. Poi sono passato attraverso lo scandalo dell’opera di Sam Durant, «Scaffold» (2012), esposta nel nostro Sculpture Garden e che, a seguito delle proteste della comunità nativa, è stata rimossa. Solo pochi giorni dopo sono stato investito dalle accese e pretestuose polemiche legate alla mostra di Jimmie Durham, accusato di non essere nativo americano. Tutto questo nel primo anno dal mio arrivo.

Poi dopo qualche mese c’è stato l’allontanamento non proprio volontario della direttrice esecutiva che, insieme al direttore artistico, mi aveva voluto; da lì è iniziata una nuova fase, in cui ho ricevuto la promozione a direttore associato delle mostre e della collezione, seguito dal momento di quasi due anni di interim nel quale tutti noi abbiamo dovuto fare il cosiddetto step up e fare di più tutti insieme. Infine gli ultimi tre anni in cui ci sono stati l’arrivo della nuova leadership, direttrice e chief curator, la pandemia globale (questa almeno c’è stata per tutti), la chiusura del museo per mesi e i conseguenti licenziamenti di parte dello staff; la successiva creazione del sindacato per i lavoratori del museo con grandi scontri interni e infine, come se non avessimo avuto abbastanza, la barbara uccisione in questa città di George Floyd, con le relative rivolte e scontri sociali tuttora molto accesi.

Insomma, vi assicuro che non mi sono fatto mancare alcunché. Ma questi sei anni reali-dodici percepiti, non li cambierei, perché ho avuto la fortuna di lavorare in un museo straordinario, in cui sognavo di lavorare sin da quando ero studente al Centro di Studi Curatoriali del Bard College (NY) e ho potuto imparare tantissimo. Ho imparato meglio e molto di più il mestiere e, grazie a una massiccia dose di analisi, ho imparato tanto su di me. Soprattutto penso di aver imparato molto sulla società americana.

In molti dei miei articoli precedenti ho raccontato quello che vivo tutti i giorni e come percepisca la società di questo Paese e in particolare come questa influenzi l’attività del mondo dell’arte e dei musei. Sono stato critico, a volte sarcastico e qualche volta tranchant. Ora che si chiude questo capitolo, ho avuto voglia di scrivere un pezzo molto personale, come lo era stato il primo della mia collaborazione con «Il Giornale dell’Arte». Con questo, infatti, concedetemi di concentrare i miei pensieri sul prossimo e ultimo atto da curatore del Walker, ovvero la grande mostra retrospettiva di Jannis Kounellis (dal 14 ottobre al 26 febbraio 2023 al Walker Art Center di Minneapolis, dall’1 aprile al 17 settembre al Museo Jumex di Città del Messico).

Da europeo, e da italiano, non potevo sperare di chiudere la mia esperienza qui con una mostra più importante. E sono grato a tutti quelli che ci hanno lavorato. In particolare, l’Estate di Jannis Kounellis e l’Archivio Kounellis. La mostra è così importante per varie ragioni, prima di tutto in pochi sanno quanto il lavoro di Kounellis abbia influenzato alcune mie ossessioni curatoriali culminate in due progetti a me molto cari che sono «Ennesima. Una mostra di sette mostre sull’arte italiana», alla Triennale di Milano nel 2015, e poi la recente grande collettiva, già citata prima, «The Paradox of Stillness: Art Object and Performance» del 2021.

Ma questo è un dato solo personale e pertanto lascia un po’ il tempo che trova per molti. E allora dovrei dire e dico che la mostra è cruciale perché Kounellis è un gigante dell’arte del XX e XXI secolo, e se è vero che uno dei nostri ruoli è cercare di scoprire sempre qualcosa di nuovo, è anche vero che quando qualcuno ha qualcosa da dire e lo fa in modo cosi struggente, deciso, poetico e tagliente come Kounellis, quel qualcuno non ha età e c’è sempre un aspetto da scoprire che prima non era stato messo in luce.

Ma è un progetto fondamentale perché sono 36 anni che un museo americano non gli dedica una mostra, e anche perché mi dà la possibilità di presentarlo sotto una luce diversa da quella che questo Paese, così facile a etichettare e a incapsulare la gente in categorie precostituite, è stato abituato a vederlo. Infine, ritengo che sia una mostra estremamente contemporanea perché il suo lavoro non potrebbe essere più attuale con tutto quello che stiamo vivendo oggi.

Chi mi conosce sa che la mia esperienza qui al museo è nata con la proposta di questa mostra, anche se sei anni fa era pensata in modo radicalmente differente, e in quel momento Kounellis era ancora tra noi. Ma proprio per questo non penso sia affatto un caso che nel momento in cui questa mostra si sta per realizzare, io stia concludendo il mio percorso qui, almeno per ora. Non può essere un caso, o fatemi sperare che non lo sia, perché, come dico nel mio testo in catalogo, scritto in tempo non sospetto, quando nulla di quello che mi è capitato di recente era neanche lontanamente preventivabile, l’opera di Kounellis è come un biglietto di andata e ritorno, ma uno di quelli sui generis perché sai da dove parti ma non sai dove arrivi. Ed è cosi che penso di aver vissuto questi ultimi sei (dodici) anni. Passo e chiudo dall’America, a presto dall’Europa.

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