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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. © Riccardo Ghilardi Contour by Getty Images

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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. © Riccardo Ghilardi Contour by Getty Images

Torino ora rischia di appannarsi

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo: «Il suo primato è messo in discussione da città molto competitive come Milano, Napoli, Roma»

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Jenny Dogliani

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Patrizia Sandretto Re Rebaudengo è presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con sedi a Torino e Guarene e presidente della Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid. Siede in numerosi e importantissimi board tra cui l’International Council del MoMA e del New Museum di New York e della Tate Gallery di Londra, l’Advisory Committee del Rockbund Art Museum di Shanghai e il Contemporary Art Committee del Philadelphia Museum of Art. Collezionista e mecenate appassionata di arte contemporanea ci porta dietro le quinte di un sistema che ha fatto scuola, ma che ora rischia di perdere il suo primato.

Com’è cambiata Torino negli ultimi decenni?

Ha vissuto grandi trasformazioni: è stata la prima capitale d’Italia e uno dei centri della modernizzazione nazionale; è diventata una città-fabbrica e poi di nuovo una città, spesso definita città-modello. La cultura ha partecipato a questi passaggi, rispecchiando le sue diverse fisionomie. Tra gli anni ’90 e i primi 2000 ha intrapreso un percorso di ridefinizione della propria identità, attraverso un’attività di policy making governata dagli enti locali e condivisa con il territorio. La cultura, e l’arte contemporanea in primis, hanno assunto un ruolo di rilievo nello sviluppo del «Modello Torino». L’arte contemporanea è stata investita di una funzione simbolica, è stata un traino nel superamento dell’immagine della città «grigia», un vettore di valori quali sperimentazione, innovazione, talento, creatività.

Il sistema dell’arte è cresciuto e si è consolidato, contribuendo all’emergere di una città vivace e attrattiva. La città dell’arte contemporanea ha dato vita a un’economia di settore, con una concentrazione di spazi e professionalità e una ricca proposta espositiva che hanno avuto ricadute positive anche sull’offerta turistica. Gli effetti propulsivi di questo ciclo sono rimasti visibili, convalidati dalla capacità di resistenza che il sistema torinese ha mostrato negli anni della crisi del 2008-09 e dalla nascita successiva di spazi come il MEF (2014), Camera (2015) e OGR (2017). Oggi l’immagine di Torino città dell’arte contemporanea è appannata.

Il suo primato è messo in discussione da città molto competitive come Milano, Napoli, Roma. La cooperazione pubblico-privato, uno degli elementi decisivi del successo del modello torinese, si è drasticamente ridotta. L’arte contemporanea è diventata un asset secondario nella comunicazione e nelle politiche urbane promosse dagli enti locali. D’altra parte il sistema non è riuscito ad aprire un’interlocuzione stabile e fattiva con il mondo dell’imprenditoria locale. Confido in una nuova stagione e in un rilancio di progettualità ragionate e condivise. L’attuale congiuntura, legata alla drammatica emergenza sanitaria rende questa prospettiva molto difficile, ma mi auguro che Torino e il suo sistema culturale sappiano trovare la forza per ripensarsi e reagire in direzione futuro.


Nel 2005 a consolidare il «Modello Torino» arriva T1, la Triennale Torino Tre Musei. Perché è stata interrotta dopo due edizioni?

A causa della drastica contrazione delle risorse, determinata dalla crisi economica del 2008-09. La Triennale ha offerto una visione approfondita della giovane arte internazionale, ma è stata un’esperienza molto interessante anche sul piano della collaborazione pubblico-privato. Oltre all’articolazione della mostra in più sedi (musei, fondazioni, spazi espositivi del territorio), ha sperimentato metodologie interessanti nell’ambito della co-curatela e nella condivisione di approcci, come la mediazione culturale dell’arte che la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è stata chiamata ad applicare anche fuori dal proprio spazio. A distanza di un decennio penso che la fine della Triennale possa essere riletta come uno dei segnali della parabola discendente del modello che Torino ha saputo esprimere nel campo dell’arte contemporanea.

Il mondo dell’arte internazionale quanto frequenta Torino?

Sulla carta, o meglio sulla mappa del sistema dell’arte locale, abbiamo ancora tutti i soggetti e le strutture capaci di attrarre i collezionisti e gli attori del sistema internazionale: una fiera con una specifica vocazione al contemporaneo, musei, gallerie, fondazioni di origine bancaria molto attente e propositive, artisti, stampa specializzata. È un sistema che va però aggiornato e, soprattutto, reinvestito di una funzione nella vita della città e della sua collettività. Il quadro generale delle nostre infrastrutture ci penalizza certamente: per essere una città internazionale, abbiamo bisogno prima di tutto di un aeroporto internazionale. Nonostante la situazione critica che stiamo attraversando, e anzi a maggior ragione, in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo investiamo molta energia e risorse nel creare e mantenere vivi contatti, relazioni e reti internazionali di alto livello.

Il Covid avrà un impatto a lungo termine su Artissima e le altre fiere?

Artissima ha reagito prontamente all’impossibilità di aprire all’Oval. Fa parte delle istituzioni della Fondazione Torino Musei e ha potuto contare sulla disponibilità degli spazi di alcuni musei civici, sperimentando con le sezioni «Artissima Unplugged» e «Artissima XYZ» un formato ibrido che intreccia mostra, mercato e digitale. Quasi certamente il Covid-19 avrà un impatto a lungo termine sulle fiere e sulla vita di musei, fondazioni e centri di produzione artistica. Questo cambio radicale della quotidianità, del lavoro e della socialità è l’occasione per ripensare anche il sistema dell’arte, la sua relazione con la società, la scuola, la città.

Il web ci permette di viaggiare sul posto: rende la conoscenza più accessibile e democratica, riduce gli spostamenti fisici a beneficio dell’ambiente. Durante il lockdown e in questi ultimi mesi ho potuto conoscere opere e progetti artistici grazie alle viewing room delle fiere, alle mostre online sui siti di istituzioni e gallerie, alle studio visit in remoto con gli artisti. Non ho alcun pregiudizio sulla tipologia degli strumenti. Negli anni ’90, quando ho iniziato a collezionare, mi facevo spedire dalle gallerie di tutto il mondo la documentazione delle opere. Allora erano diapositive. Le proiettavo, osservavo, studiavo, chiedevo informazioni. Ho acquisito «A to Z 1994 Living Unit» di Andrea Zittel dopo essermene innamorata su quel piccolo rettangolino di pellicola: oggi è una delle opere più amate ed esposte della collezione.


Com’è il collezionismo a Torino? C’è stato un cambio generazionale?

Il cambio è avvenuto a livello generale. Il collezionismo delle giovani generazioni è un collezionismo che predilige la socialità, l’aggregazione, la condivisione di interessi, passioni, conoscenze, relazioni, l’utilizzo dei social network. Anche in questa direzione, Torino è stata pionieristica, con la costituzione negli anni ’90 dell’associazione Arte Giovane, un nucleo di collezionisti che nel 2007 ha dato vita a Barriera, uno spazio non profit che sostiene giovani artisti e curatori, nel contesto di un quartiere multiculturale.

Novembre a Torino è il mese dell’arte contemporanea. È possibile bissarein primavera? Lo scorso anno c’è stato il tentativo con la fotografia.

Al momento attuale credo sia importante concentrare forze, economie e strategie su un unico appuntamento annuale. Difenderlo, rafforzarlo, renderlo più originale e competitivo.

È stato uno sbaglio avere detto di no alle Olimpiadi con Milano e Cortina?

Guardo avanti. Sono contenta che la nostra città si sia aggiudicata le ATP Finals 2021-25, raccogliendo il testimone da una grande metropoli come Londra.

Torino è la città del contemporaneo, ma anche la prima capitale d’Italia, la città dove sono nati il cinema e la moda italiani, la città del Risorgimento, dell’aerospazio ecc... Tutti questi aspetti sono abbastanza valorizzati e comunicati?

Ricominciamo innanzitutto a raccontare la città a noi stessi, a chi la abita. Riprendiamo il filo delle nostre vocazioni storiche: la modernizzazione, la tecnologia, la ricerca, la sperimentazione scientifica e culturale. Su quel racconto occorre innestare la Torino di oggi: la città dei laureati, dell’Università, degli studenti, dei giovani nati qui da famiglie di migranti, potenziali portatori di energie e di culture nuove.

Lei, Carolyn Christov-Bakargiev, Ilaria Bonacossa, Beatrice Merz, Paola Gribaudo, Evelina Christillin, Enrica Pagella (solo per fare alcuni nomi in ordine sparso). Il mondo dell’arte torinese vanta parità di genere nelle posizioni apicali. È davvero così? È un unicum?

Ho iniziato il mio percorso nell’arte contemporanea negli anni della direzione di Ida Gianelli al Castello di Rivoli. Mi ha insegnato molto e nel 1996 mi ha invitata alla mostra «Collezionismo a Torino», dove ho scelto di esporre opere di artiste donne. La sua presenza e quella di Rosanna Maggio Serra alla Gam hanno rafforzato in me l’immagine di una città in cui le donne potevano e sapevano contare. Col tempo ho imparato che quella possibilità va sempre difesa, a tutti i livelli, nella vita quotidiana, in quella professionale e non solo nelle posizioni apicali. Sì, credo che nel mondo dell’arte Torino sia un unicum, anche grazie ad artiste straordinarie come Carol Rama e Marisa Merz.

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. © Riccardo Ghilardi Contour by Getty Images

Torino. Foto di Benedetto Camerana

Jenny Dogliani, 07 novembre 2020 | © Riproduzione riservata

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