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«Dipingo per guarirmi», dichiarava nel 1981 Carol Rama agli studenti di Architettura di Milano che l’amico Corrado Levi, artista e critico, le aveva fatto incontrare. E per guarirsi, Olga Carolina Rama (Torino, 1918-2015), ha messo in scena, fin dagli anni Trenta, i racconti più perturbanti, eversivi o (deliberatamente) repellenti che si possano immaginare. Lingue rosso fuoco che saettano da vermiglie bocche femminili, dentiere, masturbazioni, orinatoi, sanguisughe, sedie a rotelle, protesi anatomiche, cannule vaginali, occhi di vetro acquistati in quantità da un tassidermista e applicati a grappoli sulla tela o sulla carta (è il periodo che l’amico poeta Edoardo Sanguineti definisce «bricolage»), camere d’aria da bicicletta che paiono intestini, corpi amputati e mutilati popolano le sue opere. Non stupisce che la sua prima personale, nella Torino «prude» e bacchettona (e martoriata dalle bombe) del 1943 sia stata chiusa, per oscenità, prima ancora dell’inaugurazione.
Dopo la guerra Carol Rama si sarebbe avvicinata al Movimento Arte Concreta, producendo interessanti opere aniconiche (una versione più ludica del Concretismo), per tornare presto però al suo universo organico e provocatorio, «erotico ed eretico», come scriveva Lea Vergine, che nel 1980 la presentò nella sua memorabile mostra «L’altra metà dell’avanguardia».
Nel 1993 fu la volta di Achille Bonito Oliva, che la invitò, con una sala personale, alla Biennale di Venezia, dove nel 2003 Carol Rama avrebbe ricevuto il Leone d’Oro alla carriera. Un premio che riconosceva il talento di una grande isolata, per scelta, nel sistema dell’arte («Ho sempre rifuggito i colleghi e i collegamenti»), anticipatrice però, di decenni, dei climi del Post-Human.
A lei De Primi Fine Art dedica dal 14 settembre al 13 ottobre un’importante mostra in cui riunisce una ricca selezione del suo lavoro, dal 1933 («Calzolaio») fino agli anni più recenti.
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