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All’interno del programma di mostre del Pac-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano dedicate all’arte e alle culture del mondo, quest’anno va in scena l’India, in un progetto scaturito da un lungo lavoro di ricerca sulla sperimentazione visiva degli artisti contemporanei indiani condotto dal collettivo di artisti RAQS Media Collective, che sono anche curatori del progetto insieme a Ferran Barenblit, già direttore di importanti musei internazionali, docente universitario e membro del comitato scientifico del Pac. Nella mostra, intitolata «India. Di bagliori e fughe» (dal 25 novembre all’8 febbraio 2026), non ci si aspetti, avvertono dal Pac, alcuna «atmosfera New Age, né esotiche divinità o seducenti star di Bollywood», perché l’obiettivo dei curatori è di esplorare le pratiche di generazioni diverse dei migliori artisti oggi attivi in India con media diversi (pittura, fotografia, scultura, installazione, web art e cinema) «partendo dal basso, dalle strade, allegoriche e non: percorsi solcati da flussi migratori e autostrade informatiche, collegamento (e frattura) tra realtà rurale e innovazione tecnologica».
Shefalee Jain, «The garden of delights», 2011
A Ferran Barenblit abbiamo chiesto di illustrarci le linee guida seguite nel comporre la mostra: «La mostra riunisce pratiche artistiche dell’India contemporanea che si muovono tra memoria collettiva, gesti quotidiani e immaginazione speculativa. Piuttosto che presentare un’indagine nazionale, il progetto si sviluppa come una costellazione di incontri che risuonano ben oltre qualsiasi singola geografia. Esplora piuttosto il modo in cui le persone immaginano modi di vivere insieme, sognare e fuggire in tempi incerti. “India. Di bagliori e fughe” esamina come l’arte possa diventare una forma di associazione, come immagini, canzoni e storie racchiudano possibilità di connessione fragili ma luminose. Al centro del progetto c’è la residenza che ha portato a Milano un gruppo di artisti che, grazie allo sforzo congiunto di Pac e Casa degli Artisti, sono entrati in stretto contatto con la città, con la sua storia, le istituzioni formali e informali, il paesaggio urbano e il suo tessuto sociale. Durante il loro soggiorno gli artisti hanno sviluppato nuove opere e approfondito conversazioni che vanno oltre la geografia, intrecciando incontri locali e ricordi lontani. Alcune delle idee che articolano la mostra includono la fragilità condivisa come condizione e metodo; l’arte come vita associativa; la politica dell'immaginazione e della fuga; la memoria e la controstoria. La maggior parte degli artisti ragiona in termini di risonanza piuttosto che di rappresentazione, raggiungendo dimensioni affettive, temporali ed eteree che puntano verso un’ecologia delle relazioni piuttosto che verso una geografia formale. La dimensione etica dell’attenzione emerge come un’aspirazione legittima. Alla base di tutti questi filoni c’è un invito all’attenzione: ascoltare, aspettare, rimanere con ciò che è fragile o irrisolto. Un modo silenzioso per rinnovare il mondo».
E riguardo alle generazioni e ai media, così diversi, usati dagli artisti, come ci si è orientati? È ancora Ferran Barenblit a risponderci: «La mostra non segue criteri curatoriali che potrebbero essere ridotti a una semplice formula. Gli artisti non sono stati invitati perché illustrano un tema o rappresentano un modo di fare, ma perché ciascuno di loro apre un modo di pensare su come viviamo e immaginiamo insieme. Alcuni lavorano attraverso la memoria, altri attraverso gesti collettivi, il suono o la sperimentazione materiale. Ciò che li accomuna non è una generazione, un mezzo o uno stile, ma un certo atteggiamento: una sensibilità verso ciò che è incompiuto, verso ciò che può ancora essere reimmaginato. La maggior parte di loro sovverte i ricordi e concepisce nuove idee ripercorrendo le eredità del passato al tempo presente. La mostra nasce da conversazioni e risonanze piuttosto che da categorie. Non si tratta tanto di mappare una scena quanto di tracciare i fili invisibili che collegano pratiche molto diverse attraverso urgenze condivise e modi di prestare attenzione».
Tenzin Gyurmey Dorjee, «Opera backstage», 2022