Le relazioni pericolose: Nft e smartphone

Trascorriamo sui nostri cellulari un quinto delle nostre giornate, con inevitabili ripercussioni sui nostri comportamenti: siamo consumatori appetibili per i vari brand

L'installazione al dazio di Ponente in Piazza Sempione a Milano con cui Gucci ha presentato Vault, il suo concept store online. Foto Vanesa A. Heredia
Riccardo Deni |

4 ore e 23 minuti: è il tempo che gli americani trascorrono sul proprio smartphone ogni giorno (chiamate escluse). Nel 2010 erano solo 24 minuti. In dodici anni siamo passati dal 3% a un quinto della nostra giornata. Impossibile pensare che questo non abbia modificato il nostro comportamento e il modo in cui consumiamo contenuti, in cui compriamo oggetti o esponiamo noi stessi. E infatti lo ha fatto. Così come cresce con costanza quasi matematica e lineare l’attitudine all’acquisto di opere d’arte attraverso mezzi digitali, c’è un altro fenomeno che sta prendendo una dimensione non solo non più ignorabile, ma decisamente rilevante: gli Nft.

Prima di entrare nel Metaverso qualcos’altro sull’impatto dello smartphone nelle nostre vite: recentemente la piattaforma sportiva Dazn ha rilasciato i dati relativi alle abitudini di visione dei propri utenti. Il 30% di questi guardano le partite di calcio dal cellulare. Mi risulta difficile immaginare una moltitudine di persone (una su tre di quelle che conosco) guardare spettacoli sportivi come quello tra Inter e Liverpool di pochi giorni fa da uno schermo da 6 pollici. Ma questo è, citando il premier Mario Draghi. E non accade per caso, o per una autolimitazione. È un fenomeno che traduce con chiarezza ed evidenza come lo smartphone sia ormai una protesi, un prolungamento del nostro corpo, che utilizziamo per moltissime cose e che concepiamo nella sua onnipresenza, anche in sostituzione a elettrodomestici od oggetti che fino a poco tempo prima erano il tempio di talune nostre abitudini.

Ma non è tutto. L’utilizzo dello smartphone non sostituisce solamente altri oggetti, piuttosto aumenta e allarga le nostre possibilità, e incita, sospinge certi nostri istinti. Questo è accaduto con il mondo degli e-commerce, che hanno poi iniziato ad acquisire utenti sulle piattaforme social, e che nell’arte trovano ormai grandi fenomeni, dalle aste online ai mercati digitali come Artsy. E questo succede con gli Nft; oggetti fantasmatici sui quali molti si avventano per speculare, taluni per appartenere a una nuova élite, altri per spirito d’innovazione, e qualcuno per piacere.   

Delle moltissime numeriche che ormai arrivano in abbondanza e infestano gli articoli e i talk sui Non Fungible Token, quella che mi sembra più significativa è questa: il 71% degli acquisti e degli scambi per Nft vengono conclusi mediante uno smartphone. Se si considera il numero totale delle transazioni Nft sul mercato primario e secondario (94mila nel solo mese di settembre 2021, 73mila in novembre e 45mila in gennaio 2022), quella percentuale racconta quanto l’oggetto smartphone (che una volta chiamavamo telefonino, con quello che oggi ci appare come un ridicolo vezzeggiativo riferito al telefono di casa, sua primordiale versione istituzionale) ormai detti i nostri comportamenti e, appunto, sospinga le nostre pulsioni.

La relazione tra Nft e attività smartphone è tanto più evidente se proviamo ad associare il fenomeno con l’utilizzo da parte della Generazione-Z di social network tutti improntati al mobile come Instagram o Tik Tok. Luoghi espressivi di una generazione che vivono solo lì dentro e che non esistono su uno schermo di un computer o su quello di un tablet. Luoghi nei quali si esprime un’intera maggioranza di ultra giovani e che, ovviamente, diventano anche gli imbuti commerciali per le marche che desiderano collocare i propri prodotti. Il mondo degli Nft deve far riflettere innanzitutto per questo: è saldato al dispositivo che più di tutti è entrato sotto la pelle delle persone, come fosse l’osso tramutato in clava o utensile della scimmia di «2001: Odissea nello spazio», è oggi la chiave d’accesso alla nostra contemporaneità, lo stargate dei nostri bisogni.

D’altronde a chi guarda una maison come Gucci quando concepisce operazione come «Vault»? Ospitato sotto questo brand (Gucci Vault, appunto) integralmente dedicato ai lanci di prodotti Nft, la casa di moda diretta da Alessandro Michele ospiterà esperienze immersive nel metaverso per la Gen-Z, inaugurando così il proprio mondo virtuale sulla piattaforma immobiliare digitale The Sandbox. Il marchio ha infatti acquistato una quantità non rivelata di «terreno», che le consentirà di sviluppare immobili virtuali nei quali esporre e vendere collezioni, capi, oggetti, che vivranno nel Metaverso e che di fatto verranno impressi un portafoglio (wallet) nel nostro smartphone. Saremo uomini di carne e uomini di codice. Quelli di carne ancora qui su una terra malconcia, quelli di codice sorgente in uno smartphone (in attesa che arrivi qualcosa di ancora più dermico).

In questo senso può valere la pena ricordare Infinite Jest di David Foster Wallace. Era il 1996 quando il genio di Ithaca pubblicò questo Ulisse del (quasi) ventunesimo secolo che ruota attorno alla cartuccia smarrita di un film (intitolata appunto «Infinite Jest»): la visione del film produce un vero e proprio piacere fisico, a tal punto intenso che i suoi ignari spettatori dopo pochi istanti entrano in catalessi e perdono qualsiasi interesse per tutto ciò che non sia l'infinita visione del film. La cartuccia è quindi l'incarnazione estrema della dipendenza (come lo è Tik Tok per i nostri figli), in un mondo vagamente futuristico in cui la feroce ricerca di nuovi mercati ha portato al fatto che gli anni prendano il nome unicamente dal loro sponsor aziendale (Anno del Whopper, Anno dei Cerotti Medicati Tucks, Anno della Saponetta Dove in Formato Prova, eccetera).

David Forster Wallace con altrettanta lungimiranza scriverà poi «l’arte seria dovrebbe farci affrontare cose che sono difficili dentro di noi e nel mondo. E il pericolo è che se ci esercitiamo ad affrontare sempre meno e a provare sempre più piacere, la daremo vinta alle cose commerciali». Forse questa frase dovrebbe apparirci come per editto di stato, ogni volta che accendiamo il nostro iPhone.

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