Finalmente Franceschini ascolta il Gruppo Apollo

I suggerimenti dell’avvocato Calabi al ministro: ecco che cosa si deve fare perché l’Italia recuperi lo svantaggio sulla Francia e gli altri Paesi europei riguardo normativa fiscale, mecenatismo, soglie di valore

L’avvocato Giuseppe Calabi, coordinatore del Gruppo Apollo, che riunisce i principali operatori della filiera dell’arte
Michela Moro |

L’avvocato Giuseppe Calabi ha partecipato al convegno organizzato da Nomisma a Roma in occasione della presentazione della ricerca «Arte: il valore dell’Industry in Italia» definendosi, in maniera un po’ riduttiva, «coordinatore» del Gruppo Apollo, che rappresenta un importante interlocutore per il Ministero dei Beni culturali dando voce e concretezza alle istanze del mondo dell’arte. Lo studio dell’avv. Calabi, che è anche stato membro della Commissione nominata dal Ministero dei Beni e le Attività culturali per l’attuazione della riforma del regime di circolazione internazionale delle opere d’arte e dei beni culturali, è riconosciuto in campo internazionale come uno dei più competenti per quanto riguarda l’attività concernente i beni culturali e il mercato dell’arte. L’abbiamo intervistato.

Avvocato Calabi, come mai questo incontro è stato così importante?
Sono stati affrontati argomenti non nuovi per gli addetti ai lavori, ma è la prima volta che pubblicamente il ministro afferma il proprio interesse al proposito. Penso che possa aprire una nuova stagione di riforme. È la prima volta che tutti gli operatori si siedono a un tavolo e fanno sentire la loro voce, con diversità di opinione ma facendo un fronte comune, aumentando le possibilità che questa voce unitaria possa arrivare nelle stanze di chi deve prendere le decisioni.

Il ministro ha proposto l’istituzione di un tavolo tecnico permanente.
È un dato di grandissima importanza per evitare che ci sia uno scollamento tra le parti, cosa che notiamo quotidianamente operando in questo settore. Con il Gruppo Apollo presto discuteremo su come potrà essere rappresentato il mercato da questo comitato permanente e quale potrà essere la sua missione. Secondo me dovrebbe essere quella di indicare al Ministero proposte di legge che ovviamente devono passare dal Parlamento, proposte di circolari là dove il Ministero ha la capacità di produrre norme di rango secondario, essere propulsivi rispetto a quelle, e verificare che quelle già approvate siano correttamente attuate. Si dovrebbe creare un dialogo costante fra tutti i protagonisti del mercato, pubblici e privati.

Un aspetto interessante dell’incontro di Roma sono state le relazioni: tutti hanno indicato come responsabili della lentezza italiana le Soprintendenze e l’apparato burocratico.
Non si tratta di trovare le colpe. Bisogna superare una visione antagonista tra mercato e tutela che ha pesantemente influenzato le relazioni tra operatori e istituzioni. Gli intermediari e i collezionisti non dovrebbero più vedere le Soprintendenze come un potere che ostacola la loro attività e che, quando esercita il potere di tutela, in realtà, si appropria di due terzi del valore economico del bene tutelato. Bisogna porre su un piano di maggiore rispetto il circolo virtuoso che va dal controllo al mercato, al collezionista, al museo e a tutti gli operatori del mercato dell’arte. Un eccesso di burocrazia significa tempi molto più lunghi e molti problemi, non solo per i privati: ad esempio, per organizzare una mostra all’estero ci vuole tantissimo tempo. Questa burocrazia costa molto. Tutti questi problemi dovrebbero essere affrontati e risolti dal comitato permanente, evitando così che la risoluzione possa avvenire per via giudiziaria.

Il ministro ha detto che non si può tornare lenti come prima e che l’applicazione del Pnrr aprirà un grande spazio di crescita. Lei dove vede maggiore possibilità di manovra per il mondo dell’arte?
Soprattutto nella normativa fiscale, nell’aiuto alle imprese che operano nel settore dell’arte e nel cercare di alleggerire la burocrazia. Questi tre pilastri devono essere assolutamente coltivati e promossi. Tutti e tre: profilo fiscale, fare magari una legge sul mecenatismo come c’è in Francia; abbiamo dei modelli stranieri che funzionano benissimo, perché non possono essere copiati in Italia? Che il mecenatismo sia veramente sostenuto e agevolato e che non sia visto come una facile scappatoia per pagare poche imposte.

Questo grande spazio di crescita fa gola anche agli altri Paesi. Lei ha nominato più volte la Francia: abbiamo una possibilità di recupero?
Siamo terribilmente indietro. Non è mai troppo tardi, ma bisogna iniziare. Maastricht è diventato un centro mondiale del commercio dell’arte ed è una piccola località in Olanda neppure facilmente collegata ad aeroporti internazionali, eppure Tefaf è una fiera molto prestigiosa, con vetting committees di altissimo profilo e dove gli stand appaiono simili a sale di musei. Perché mai l’Italia non potrebbe avere un centro di altrettanta importanza? Gli stranieri vengono in Italia, magari comprano ma con tutti i problemi legati al fatto di comprare in Italia. Come ha detto il senatore Roberto Rampi (membro della Commissione Istruzione Pubblica e Beni Culturali), c’è sempre l’idea che portare arte fuori dall’Italia sia un impoverimento, invece potrebbe essere visto anche nel modo opposto, come un arricchimento: la diplomazia svolta dall’arte. Perché questa idea d’impoverimento? Per via dei saccheggi della storia passata? Rispetto molto la storia e la storia della disciplina della tutela dei beni culturali in Italia è importantissima, ma le leggi non possono essere ancorate alla storia. Inoltre, le mele marce, ossia gli operatori disonesti ci sono sempre stati (in Italia e all’estero) e ci saranno sempre. In Italia la piaga degli scavi clandestini è forse più evidente che altrove, ma in quei casi c’è la legge penale e il lavoro encomiabile dei Carabinieri del Nucleo TPC che intervengono con la massima severità e rigore: non abbiamo bisogno di altro.

C’è un modo per snellire le sovrapposizioni, il nodo tra i Ministeri e la politica rispetto all’arte?
Dovrebbe essere la regia politica che risolve questi problemi. Una riforma sulla fiscalità dell’arte dovrà per forza vedere coinvolto il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Capo Gabinetto del MiC e gli altri funzionari. Ma io vedo piuttosto il pericolo che si è verificato dopo la mini riforma nel 2017, cioè una riforma cautissimamente liberalizzatrice e semplificatrice, come era proprio la finalità espressa dal comma 175 dell’articolo 1 della legge concorrenza 124/2017: «Semplificare le procedure relative al controllo della circolazione delle cose antiche che interessano il mercato dell’antiquariato». Alcune norme hanno atteso oltre due anni per essere attuate. Come ha riconosciuto il Ministro: le leggi si fanno ma poi devono essere applicate. Per quale motivo ci sono voluti più di due anni a introdurre la soglia di valore? Perché ci sono resistenze ideologiche da parte dei funzionari. Io penso che questi siano problemi enormi che non riguardano solo il Ministero della Cultura ma in generale il rapporto tra politica e burocrazia.

La nostra soglia di valore è ridicola rispetto a quella degli altri Paesi.
Esatto, ma ci sono i presupposti per adeguarci almeno alle soglie comunitarie. Noi ne abbiamo una sola, rigida e unitaria, peraltro anche inferiore al minimo previsto dal Regolamento Comunitario 116 del 2009: il minimo nel Regolamento è 15mila euro (per disegni, mosaici, incisioni e fotografie), da noi è 13.500 ed è evidentemente il risultato di un errore nella redazione della norma, ma il risultato è che l’Italia è scesa al di sotto della soglia minima europea. Perché mai non dovrebbero essere adottate soglie più elevate e differenziate per tipologia di beni come quella degli altri Paesi? Per quale motivo un quadro di un artista italiano del 1950 che vale 100mila euro circa deve passare sotto il controllo del Ministero, mentre un quadro omologo in Francia non ha bisogno di controllo perché la soglia comunitaria per i dipinti è attualmente di 300mila euro? Non è logico.

Se vogliamo essere competitivi quale dovrebbe essere la proposta italiana?
Per esempio, lo Stato può sostenere le fiere, visto che si svolgono nell’ambito pubblico, e permettere agli stranieri che vengono a visitarle di comprare in santa pace e di avere la tranquillità di esportare senza troppi problemi burocratici. Potrebbe essere già un grandissimo vantaggio.

Lei sostiene che bisogna scrivere bene le circolari per evitare che il tribunale amministrativo le annulli con una sentenza.
Sì, e parlo per esperienza diretta. Le circolari e gli indirizzi delle Direzioni Generali dovrebbero essere scritti in modo più rigoroso e rispettoso delle norme di rango primario (leggi), e in questo potremmo dare un contributo, mettendo a fattore comune le esperienze che abbiamo accumulato in questi anni, fuori da una logica antagonista.

Dice anche che devono essere conosciute dagli operatori.
Certo. Mi sembra giusto che le circolari debbano essere conosciute, quando trattano temi così importanti. E pubblicate costantemente, non a distanza di sei mesi sul sito del Ministero. L’Italia diventa il Paese delle grida allora, soprattutto in questa materia caratterizzata da un elevatissimo tecnicismo. Poche norme e chiare farebbero molto meglio.

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