Claudio Salsi scende dalla «gran macchina» del Castello Sforzesco

Da 37 anni attivo nei musei civici, fino a diventarne direttore, lascia un museo completamente trasformato, al centro dei flussi turistici ma soprattutto vissuto dai milanesi

Claudio Salsi nella Sala delle Asse del Castello Sforzesco
Ada Masoero |

Sono passati 37 anni da quando Claudio Salsi, ventottenne, entrava nel team del Castello Sforzesco come conservatore delle Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni. Ora, al momento in cui va in pensione, è soprintendente del Castello Sforzesco (dal 2008) e direttore dei Musei Archeologici e Storici di Milano. Nel mezzo, un curriculum di tre fitte pagine, che rammentano le diverse direzioni e le «imprese» da lui guidate, dal palinsesto «Milano Leonardo 500» (2019), che ha riunito intorno al Castello decine d’istituzioni al piano di recupero degli arredi storici del Palazzo Reale (2000), all’informatizzazione (con GraficheinComune oggi oltre 271mila pagine web) dell’immenso patrimonio di disegni e incisioni («il Castello Sforzesco vanta un primato mondiale per le opere su carta, antiche e del ’900», sottolinea) e delle fotografie (FotografieinComune, 62.500 voci).

E, ancora, l’attività pluriennale che ha trasformato il Castello Sforzesco, dall’arcigno contenitore di splendidi ma sorpassati musei che era, in un luogo identitario della città, frequentato, prima del Covid, da oltre 600mila visitatori (oggi, fino al 14 novembre, nei soli musei 293mila: oltre il doppio dell’intero 2021).

Dottor Salsi, partiamo proprio dal Castello Sforzesco, che fino a pochi anni fa era un luogo monumentale ma come «imbalsamato» e privo di appeal, a dispetto dei veri tesori che conserva, e che oggi è frequentato non solo dai moltissimi visitatori dei musei rinnovati, ma anche da milanesi e turisti che, nella bella stagione, si fermano nei suoi cortili, leggono, studiano, conversano, si siedono nella caffetteria. Quali sono stati i passaggi che ne hanno trasformato il volto e il ruolo, facendolo «entrare» nella città?
Sebbene già Ermanno Arslan, il mio predecessore, cui devo grande riconoscenza, ne avesse avviato lo svecchiamento, quando nel 2008 divenni soprintendente il Castello era malconcio. I restauri delle facciate sono stati il primo passo per farne un luogo di relax gradevole e accogliente, poi l’accesso alle merlate e alla strada coperta, e la cura del verde in collegamento al Parco Sempione, che ha esteso quell’area sin dentro le sue mura. Oggi il Castello, oltre alla sua importanza monumentale, è la porta che conduce al Parco e, dal Parco, la porta che conduce al cuore della città. Anche la caffetteria ha cambiato l’approccio dei visitatori, così come per i musei (oltre, ovviamente, al riordino e restauro dei singoli istituti) il miglioramento degli ingressi, la presenza dei tre guardaroba, dei due bookshop e anche dei bagni. Senza dimenticare la pergola vegetale «leonardesca» creata nel 2019, che evoca la decorazione di Leonardo nella Sala delle Asse, e il recupero dei portici della Rocchetta e della Corte ducale, molto frequentati dai visitatori (il tutto realizzato soprattutto grazie a Fondazione Cariplo). È stato Expo 2015, comunque, il primo punto di svolta nella percezione del Castello e di altri luoghi milanesi, che sono per così dire «decollati».

Fu in quell’occasione, tra l’altro, che venne inaugurato, con la sua direzione, il Museo molto frequentato della Pietà Rondanini nell’Ospedale Spagnolo, su progetto di Michele De Lucchi. Di recente il sottosegretario Vittorio Sgarbi ha proposto di riportare la «Pietà» dov’era, nella nicchia di pietra serena «ritagliata» nel 1952, a lavori quasi ultimati, nella Sala degli Scarlioni, dallo Studio Bbpr che stava riallestendo i musei del Castello. Che cosa ne pensa?
Direi che si tratta di un fatto pretestuoso: alla nicchia Bbpr, vietata ai portatori di handicap (il che è oggi inaccettabile), si accedeva da una scala ad alto rischio di cadute anche per chi è in salute. Quell’allestimento, peraltro assai modificato, rispecchia un tempo in cui i musei erano frequentati da un pubblico molto ristretto. Oggi tutto è cambiato. Non va dimenticato, poi, che il basamento su cui si trova oggi la «Pietà» è antisismico, mentre allora poggiava su un’ara romana, retta in equilibrio da due precarie zeppe di piombo.
La «Pietà Rondanini» di Michelangelo nell’allestimento attuale
Dopo Expo 2015, qual è stata la «seconda svolta» per il Castello?
Certamente il palinsesto leonardesco del 2019, culminato nell’apertura straordinaria del cantiere di restauro della Sala delle Asse. Che sta tuttora procedendo. Abbiamo lavorato sulle pareti e pressoché completato la fase di studio delle preesistenze decorative antiche, trovando, con l’uso del laser, oltre ai disegni dei tronchi e rami di gelso e dei borghi nella campagna, dei lacerti di cielo azzurrissimo. Ora per le lunette e la volta occorrerà un criterio diverso: non c’è quasi più nulla né del tempo né della mano di Leonardo. Manterremo perciò il decoro di Ernesto Rusca, del primo ’900, e di Ottemi Della Rotta, della metà del secolo.

Sarà un restauro conservativo: se togliamo queste pitture non rimarrà nulla. C’è comunque un progetto già definito che consentirà, all’occorrenza, di operare con la massima garanzia anche in presenza di scoperte impreviste. Vorrei sottolineare un dato curioso: la Sala delle Asse, che ai tempi di Galeazzo Maria Sforza (1444-76)
era freddissima, tanto da essere «fodrata» come una stube anche sul soffitto con una boiserie poi smantellata, gode invece oggi di una climatizzazione naturale eccellente. La Sala «respira» autonomamente, e in modo diverso, in estate e in inverno (anche in presenza di frotte di visitatori, come fu nel 2019): non occorrerà alcuna climatizzazione artificiale.

Da direttore del Settore Musei del Comune, dal 2009 al 2013 (quando il settore fu soppresso), lei promosse l’apertura di tre musei: il Museo del Novecento, Palazzo Morando|Costume Moda Immagine e il Museo Archeologico, raddoppiato con nuove sezioni. Di che cosa è più orgoglioso e che cosa, non ha potuto realizzare?
Fra le soddisfazioni recenti aggiungerei il riallestimento dell’Archivio Storico Civico e le collaborazioni con musei internazionali, che vanno da progetti studiati insieme (è accaduto con il Louvre, con la mostra sulla scultura italiana del Rinascimento, tenuta nel 2020-21 a Parigi, Ndr) a scambi, com’è accaduto per Hieronymus Bosch, con il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona, da cui giunge il suo «Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio» in cambio della nostra «Pala Trivulzio» di Mantegna. Oltre al lavoro avviato con Jonathan Bober della National Gallery di Washington, in vista di una mostra sull’incisione italiana tra 1861 e il 1922.

Rimpianti? Due soprattutto: per il Museo Egizio e per il Museo degli Strumenti musicali in Castello. Per il primo eravamo pronti a partire, con un bellissimo progetto di riallestimento
ma la ditta che ha vinto gli appalti ha rinunciato all’incarico per il recente aumento spropositato dei costi. Per il secondo, dove abbiamo realizzato con i Qr code un sistema di ascolto della musica eseguita con quegli strumenti, intendevamo cambiare tutte le vetrine e reimpostare il percorso sulla storia della musica e non più per tipologie strumentali. I progetti sono pronti, i finanziamenti anche. Ma le energie sono fondamentali: lo staff funzionariale conta oggi solo 17 unità, tra conservatori museali, bibliotecari, funzionari tecnici e amministrativi. Mi auguro che chi mi seguirà abbia il mio stesso entusiasmo e anche una buona esperienza, ma che porti anche forze fresche di collaboratori per gestire questa gran macchina.

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