James Bradburne © James O’Mara

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James Bradburne © James O’Mara

A Milano i visitatori diventano soci, o meglio azionisti

James Bradburne, direttore di Brera, pensa a un museo unico per quattro storiche collezioni private e a un deposito comune di tutti i musei. «Dopo sette anni dico che è una città straordinaria»

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Dal 2015, quando fu nominato dal ministro Dario Franceschini, nella prima pattuglia di direttori stranieri per i grandi musei italiani, James Bradburne, architetto e museologo anglo-canadese, è il direttore generale di Brera: della Pinacoteca, di fondazione napoleonica («l’unica, in Italia, modellata sul Louvre, il primo vero museo moderno», precisa), e della non meno illustre Biblioteca Braidense, istituita da Maria Teresa d’Austria. Rinnovato il suo mandato dal Ministero nel 2019, Bradburne è da sette anni nel cuore del sistema dell’arte milanese. Ne parliamo con lui.

Dottor Bradburne, partiamo da una notazione personale. Da alcuni mesi in città si ripete che lei lascerà l’incarico (come si dice da noi, «per raggiunti limiti di età») alla fine di questo 2022: prima della scadenza del suo mandato. È vero?
In realtà no, perché, essendo io straniero e non avendo maturato in Italia l’anzianità necessaria per il pensionamento (prima di Brera, James Bradburne ha diretto per otto anni Palazzo Strozzi a Firenze), non ci sono ostacoli amministrativi, legali o burocratici che m’impediscano di concludere il mandato che termina il primo ottobre 2023. Ne sono ovviamente felice anche perché sono in corso alcuni progetti che vorrei portare a termine prima di passare la mano.

Non è difficile immaginare che lei alluda soprattutto al completamento di Palazzo Citterio e alla sua trasformazione nel polo del moderno di Brera (attesa dagli anni ’70!).
Al primo posto c’è Palazzo Citterio, sì. Devo ammettere di essere stato ingenuamente convinto che non ci sarebbero stati grandi ostacoli, oltre a quelli tecnici. Per cinque anni ho lavorato a questo progetto, anche da architetto, ma ho dovuto scoprire che esistono ostacoli amministrativi, burocratici, politici. E purtroppo anche eventi imprevedibili, come il Covid. Posso però dire che tutti gli ostacoli che citavo sono stati superati. Restano solo quelli tecnici, ma fra questi non vedo problemi tali da bloccare nuovamente il progetto. Certo, Palazzo Citterio, a causa degli interventi fatti nel frattempo, purtroppo non potrà raggiungere il livello architettonico voluto quasi 50 anni fa da Franco Russoli (il soprintendente milanese che negli anni ’70 intendeva creare a Brera un polo di arte moderna e contemporanea, e che per questo notificò in blocco alcuni capolavori delle maggiori collezioni private milanesi del tempo, ndr). Non solo, il lungo ritardo ha fatto sì che il mio grande sogno di portare qui la collezione Mattioli sia sfumato. Abbiamo perso un’opportunità. Il che tuttavia innesca un interessante paradosso.

Quale paradosso?
Russoli avrebbe voluto riunire nella «Grande Brera» le opere delle maggiori collezioni milanesi di allora (Jesi, Jucker, Mattioli, Vitali). Fino a due-tre anni fa io pensavo di poterne riunire qui almeno tre e con Laura Mattioli e il figlio, Giacomo Rossi, abbiamo stretto un accordo sul quale ero molto ottimista. Poi, date le circostanze, ho convenuto con loro che il deposito per cinque anni al Museo del Novecento si dovesse fare: era più importante che la collezione fosse visibile, piuttosto che «nostra». Ora però si pone il problema: idealmente tutte e quattro le collezioni dovrebbero stare insieme, perché a quello scopo furono notificate. Ma dove? Tre le possibilità: un nuovo museo, il Museo del Novecento, Palazzo Citterio. Negli ultimi due, però, non c’è lo spazio fisico per ospitarle tutte. Senza prendere personalmente una posizione, lascio al lettore il compito di trarre le conclusioni.

Dunque, lei auspica per Milano un grande museo in cui riunire tutte le raccolte pubbliche di arte moderna e contemporanea?
Sì: oggi Milano è una città vibrante di energie, con due poli importantissimi dell’arte contemporanea, Pirelli HangarBicocca e Fondazione Prada, ma si tratta di collezioni private, non gestite nell’interesse della comunità come un museo pubblico. A mio parere occorrerebbe che la parte pubblica (Stato e Comune, senza inutili distinzioni) istituisse un nuovo grande museo che dall’inizio del ’900 arrivasse fino a oggi. In Italia si è perso il treno sull’Arte povera, perché dagli anni ’80 allo scorso decennio non si sono aggiornate le collezioni (ma non è accaduto solo qui: in Gran Bretagna, per esempio, la Tate ha «mancato» la Pop art). A ben vedere, l’unica persona del secolo scorso dotata di una visione lungimirante e che abbia creato una vera collezione della migliore arte italiana è stato Alfred H. Barr, al MoMA. Tutti siamo stati in ritardo, fuorché lui. Sebbene l’Italia nella lista dei ritardatari si ponga sfortunatamente all’ultimo posto. Insomma, a Palazzo Citterio avremo due collezioni bellissime (Jesi e Vitali), al Museo del Novecento le collezioni Jucker, Mattioli e altre ancora, ma forse sarebbe importante unirle in un edificio che potesse accoglierle tutte.

Questa dunque, a suo parere, la priorità di Milano per il prossimo futuro. Riesce a immaginare una sede adeguata per questo grande museo milanese dell’arte del XX e XXI secolo?
Dovrebbe essere un edificio realizzato appositamente, con una climatizzazione perfetta e con tutto ciò che è necessario perché funzioni al meglio. Invitiamo finalmente Renzo Piano a fare un capolavoro museale anche nel suo Paese! Lui che ha progettato il Pompidou, la Fondation Beyeler di Basilea, la Menil Collection a Houston, potrebbe realizzare a Milano un’opera perfetta. Ho lavorato con lui e conosco benissimo la sua sensibilità all’ascolto delle esigenze di un museo. Ma non basta.

Che altro immagina per una Milano sempre più «città d’arte»?
Sarebbe indispensabile anche un unico, grande deposito aperto a tutti i musei. Ogni museo milanese, noi per primi, ha problemi con i depositi. Servirebbe un grande deposito perfettamente accessibile agli studiosi (non lo intendo però come uno spazio espositivo, poiché è una leggenda metropolitana quella che i musei italiani nascondano capolavori nei sotterranei). Se questa città vuole un progetto di cultura di grande rilievo per il suo futuro, dovrebbe pensare a un grande museo dell’arte del nostro tempo, immerso in un parco, e a un grande, innovativo deposito per tutte le realtà museali di Milano. Perché non va dimenticato che Milano è una città straordinaria, estremamente dinamica, l’unica in Italia che corrisponda a quel modello di diversità/multiformità (che è la chiave della sostenibilità) che ci si attende da una città internazionale. Roma è grande, ha una storia ineguagliabile ma è un «villaggio politico», ha una monocultura. Firenze è magnifica, ma è anch’essa una città monoculturale e così anche Venezia. Milano no: ha tutto e in una dimensione vivibile. È una città che non è dominata né dall’industria, né dal settore bancario, né dalla sola arte, dal solo teatro, dalla sola musica. Ha però eccellenze in tutti i settori ed è una città super vivibile, con magnifici parchi e mille opportunità.

Brera ha contribuito e può ulteriormente contribuire a tale specificità?
Credo che sia stato importante creare nuovi rapporti tra Brera e la città. Al mio arrivo mi sono posto l’obiettivo di mettere Brera al centro della città. Credo di poter dire che sia stato almeno in parte raggiunto. E sono fiero della vastità delle iniziative d’inclusione per tante diversità, con i progetti per i malati di Alzheimer, per i malati oncologici (con il Vidas), per le mamme dell’Ospedale Buzzi, per gli ipovedenti e gli ipoudenti, per i bambini con autismo. Mentre alla Biblioteca Braidense, dove c’è una nuova, bravissima direttrice (Marzia Pontone, ndr) abbiamo avviato un progetto internazionale di ricerca della cultura dell’infanzia (CIRCI) e altri per gli studiosi, insieme allo studio degli Archivi, da cui sono scaturiti, tra l’altro, i tre volumi sui soprintendenti Ettore Modigliani, Fernanda Wittgens e Franco Russoli.

Perché in pandemia ha sostituito il biglietto d’ingresso alla Pinacoteca con l’abbonamento?
Perché in tal modo non avremo più «visitatori» ma «soci». All’identico prezzo di un vecchio biglietto d’ingresso (15, 10, 5 euro, a seconda delle categorie, ndr), l’abbonamento offre tre mesi di accesso fisico e un anno di accesso ai moltissimi contenuti online (complementari, non sovrapponibili alla visita al museo), messi a punto durante la pandemia. Credo che stia qui il futuro dei musei: si tratta di un cambio di modello e di visione, non basato sui soli «numeri», com’era d’uso prima del Covid-19 (personalmente, del resto, sono sempre stato molto critico nei confronti del turismo di massa, specie per Milano, che gode del privilegio di un turismo fieristico, fatto perciò di persone che ritornano più volte). Il Louvre non resta forse un museo magnifico anche senza le presenze? Con l’abbonamento, ripeto, il visitatore diventa un socio di Brera. E dirò di più: un mio prossimo obiettivo è invitare almeno un migliaio di soci (sono molti di più), in presenza o da remoto, al Cda di Brera in cui presenteremo i programmi futuri. Essere soci significa essere non clienti ma azionisti. E i soci devono poter avere accesso alla governance del museo.

James Bradburne © James O’Mara

Ada Masoero, 12 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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