Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliFiglia di Tullia e Bruno Zevi, Adachiara Zevi non ha mai abbandonato il campo di ricerca legato alla cultura ebraica, ereditato dalla madre, e lo studio del rapporto arte-architettura, di discendenza paterna. Laureatasi nel 1976 in Architettura e specializzata in Storia dell’arte, la sua vita è segnata da alcuni capisaldi: la selezionata qualità degli artisti al centro di mostre e libri (Castellani, Kounellis, Sol LeWitt, Dan Graham, Gordon Matta-Clark, Richter, Kline, Anselmo, Penone, Dadamaino), la curatela di mostre ed eventi sul rapporto tra arte e memoria (dalle «Pietre d’inciampo » alle mostre «Arte in Memoria» presso la sinagoga di Ostia antica), il tema dell’influenza del paesaggio urbano sull’arte (nel libro Arte USA del Novecento del 2000, ad esempio), la didattica come «atto critico» (quale docente di Accademia di Belle Arti), il giornalismo come divulgazione colta (sul «Corriere della Sera»).
La sua tesi di laurea su Le Corbusier pittore e scultore indica che arte e architettura già combattevano per primeggiare nella sua vita. Ha vinto davvero l’arte?
Il mio impegno in questo ambito è rivolto proprio a superare la faida tra arte e architettura, che vede da un lato gli artisti detestare i luoghi espositivi spazialmente intriganti a favore di anonimi «white cube» e dall’altro gli architetti divorati da un narcisismo che li rende indifferenti ai loro ospiti. Credo che gli artisti, anziché offendersi o ribellarsi, dovrebbero accettare le sfide architettoniche; le rare volte in cui questo accade, a guadagnarci sono sia l’arte sia l’architettura. Potrei citare alcune mostre esemplari al Guggenheim Museum di New York, forse il più detestato tra i contenitori museali. Gli architetti a loro volta dovrebbero plasmare spazi mirabolanti per le opere, non creare sculture. Prendiamo il caso di un’architettura emblematica del Decostruttivismo architettonico: il Museo Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry. A ben vedere, sia osservando la pianta dell’edificio sia percorrendolo, si coglie una dicotomia che a mio avviso è una scorciatoia per eludere il problema: gli spazi espositivi sono anonimi, dei veri cubi bianchi, dove le opere sono esposte in modo tradizionale, a parete o nello spazio, mentre gli spazi ricettivi, come ad esempio l’atrio d’ingresso, si presentano come vere e proprie sculture. Beh... viene da chiedersi: «Tanta fatica per tornare a Le Corbusier, agli "oggetti a reazione poetica“ come commento e compenso a spazi stereometrici?». È qui la differenza tra il museo di Bilbao e il suo progenitore newyorkese, dove è l’intero spazio espositivo ad avvolgersi in spirale rivoluzionando il modo di esporre e di vedere le opere.
Quale tipo di rapporto si instaura tra la sua scrittura e l’arte?
Ricordo che Emilio Prini, del quale ho curato la mostra all’Ancienne Douane di Strasburgo nel 1995, la prima dopo quella del 1967 a Genova, mi diceva di apprezzare il fatto che il mio testo si proponeva come commento alle parole dell’artista. In effetti per me il punto di partenza di ogni testo sono le parole dell’artista, poi quelle scritte da quanti ne seguono da tempo il lavoro, il tutto inquadrato nel contesto storico in cui l’opera si pone, con grande attenzione all’attitudine dell’artista nei suoi confronti. Se la relazione arte-architettura-spazio è una costante della mia indagine critica, pongo anche grande attenzione alla lettura dell’opera nelle sue componenti spaziali e cromatiche, senza la quale la critica rischia di ridursi a filosofia o a sociologia, cosa che accade spesso ad esempio ai migliori studiosi statunitensi.
Dal 2010 cura a Roma il progetto «Pietre d’inciampo», mediante il quale l’artista tedesco Gunter Demnig rende omaggio in tutta Europa alle vittime del nazismo, con la posa di una targa d’ottone davanti alle loro abitazioni. E nel 2023 si inaugurerà l’undicesima edizione di «Arte in Memoria», biennale internazionale di opere collocate tra i ruderi della Sinagoga di Ostia antica. In che modo l’arte risponde all’orrore?
L’idea della biennale «Arte in Memoria» di Ostia nasce da un artista, Jannis Kounellis, il primo a esporre nel 1990 nella sinagoga di Stommeln, sopravvissuta al nazismo, inaugurando così un progetto che dura tuttora: ogni anno un artista diverso si confronta con quel piccolo spazio ottocentesco attraverso un lavoro creato appositamente. Ho pensato che sarebbe stato fantastico proporre quel confronto in un luogo straordinario come la sinagoga di Ostia antica, tra le prime vestigia dell’ebraismo della diaspora. E così in vent’anni oltre 50 artisti da tutto il mondo hanno creato un’opera che è frutto di quell’incontro, a testimonianza del fertile dialogo tra antico e contemporaneo. Tengo a precisare che grazie alla Soprintendenza diretta da Anna Gallina, «Arte in Memoria» è stata la prima esperienza di arte contemporanea in un sito archeologico. Anche se l’inaugurazione della mostra ha luogo a gennaio, in concomitanza con il Giorno della Memoria, agli artisti non viene chiesta un’opera a tema, per commemorare, ricordare, evocare, ma di interagire con un luogo che è un concentrato di storia, di arte e di architettura. È questo cortocircuito che porta il lavoro dell’artista ad assumere nuove declinazioni e nuovi significati, e il luogo a riacquistare vita e confermare la sua vocazione allo studio e alla cultura.
Sono convinta che l’arte giochi un ruolo fondamentale per evitare che la memoria s’isterilisca in formule, cerimoniali, buoni propositi, routine celebrativa. Come sostiene Lambert Barthélémy, «occorre adottare strategie artistiche che scongiurino ogni forma di monumentalizzazione della memoria a favore di sistemi identificativi, di un approccio empatico più che inorridito, consapevole più che totemizzato; concepito come un sistema vivo di apprensione del presente, nella linea di pensiero che si apre in direzione dei rapporti tra ambiente, storia e politica. Si tratta di immaginare forme in divenire, che trattino la memoria come un processo permanente di attualizzazione ». Credo che le «Pietre d’inciampo» rispondano a tali prerogative: non sono monumentali, anzi sono praticamente invisibili, sono in divenire perché il loro numero dipende ogni anno dai parenti dei deportati che ne fanno richiesta, consentono di ricordare il passato non in una data comandata ma quotidianamente, quando si esce dal portone di casa, quando si cammina per la strada, quando uno meno se lo aspetta. Sono affidate alla scrittura, il più concettuale dei mezzi di espressione, che informa con distacco, senza spaventare o inorridire, il destino di persone come noi, prelevate brutalmente dalle loro case, dall’affetto dei loro cari, nell’indifferenza dei vicini, e inghiottite nell’orrore dei campi di sterminio. A loro Gunter Demnig restituisce un nome, una dignità di persone, riportandole nelle loro case. È un progetto geniale che attrae molto i giovani, anche i giovanissimi.
Nel suo libro del 2014, «Monumenti per difetto», ha descritto la via antieroica dei grandi memoriali, dalle Fosse Ardeatine alle «Pietre d’inciampo». Quali sono le caratteristiche di un anti- monumento?
Il libro traccia un percorso di avvicinamento al contro-monumento che, nella sua espressione più radicale, ne implica la sparizione. Se le prerogative attribuite al monumento sono unicità, staticità, ieraticità, ipertrofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, aulicità dei materiali, esproprio delle emozioni, il contro-monumento brilla per la loro assenza. Il punto di partenza è il capolavoro del Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, frutto del primo concorso nella Roma liberata, dove per la prima volta il monumento si configura non come oggetto da contemplare ma come percorso attraverso gli episodi della storia da commemorare. Il passo successivo è il Memoriale agli ebrei uccisi in Europa, progettato da Peter Eisenman nel cuore di Berlino, che registra il passaggio decisivo dal monumento come percorso al monumento come brano di città. È una gigantesca griglia deformata e sbilenca, costruita da pilastri tutti diversi per altezza e inclinazione, piazzata nel cuore della città, dove chiunque può sprofondare in qualsiasi ora del giorno e della notte. È una voragine, uno strappo nel tessuto urbano che evoca quello prodotto nella storia tedesca dal nazismo e dai suoi crimini.
Il manifesto dei monumenti che scompaiono è invece la colonna di piombo innalzata ad Amburgo nel 1986 da Jochen Gerz ed Esther Shalev e inabissatasi dopo sette anni grazie alle firme dei visitatori sulla colonna, grazie cioè alla loro presa in carica della memoria prima affidata al monumento. Le «Pietre d’inciampo» costituiscono un passo ulteriore: consentono cioè al gesto unico e radicale del monumento invisibile di tradursi in pratica memoriale diffusa e personalizzata. Una gigantesca mappa europea della memoria in continuo divenire. Tutti diversi ma tutti uguali, visualizzano la condivisione di un destino comune ma anche quanta diversità quel destino abbia conculcato. Sono antigerarchici: ti colgono di sorpresa, attraendoti con il loro bagliore, ovunque ti trovi, nel centro storico, in un quartiere residenziale, in un quartiere popolare, in una borgata. Non occorre convergere in un luogo per vederle; ogni quartiere ha il «suo» monumento ai «suoi» caduti, ma di forma, dimensione e valore uguale agli altri. Prezioso contributo alla ricerca storica scritta e orale, potente antidoto al revisionismo e al negazionismo, sono la dimostrazione più eloquente che, quanto più il ricordo è affidato a un segno sobrio e silente, tanto più il processo di elaborazione individuale rinuncia alla delega per attivarsi in prima persona.
Lei è stata docente di Storia dell’arte in varie Accademie di Belle Arti italiane e, ricordando la collega Jole de Sanna, ha parlato di «insegnamento storico come atto critico»: la didattica può essere vissuta come una forma di ricerca?
Altro che! La fortuna di insegnare all’Accademia di Belle Arti è stata proprio di poter lavorare con docenti e studenti alla traduzione dell’insegnamento della Storia dell’arte nell’atto critico dell’opera d’arte, e da questo punto di vista lavorare a Brera con Luciano Fabro e Jole de Sanna è stato estremamente stimolante.
Come giudica la produzione artistica, e generalmente culturale, oggi?
Credo che l’arte rispecchi la bulimia che colpisce tutti gli aspetti della nostra vita nell’epoca post Covid: il bisogno forsennato di fare, di sentirsi vivi e vitali, di rifarsi insomma del tempo perduto. È dunque molto difficile orientarsi in tanta offerta, nella quale ci sono proposte serie e qualificate e altre prettamente commerciali. Penso comunque che il criterio prevalente di fare cassetta da un lato e l’obbligo di rispettare il «politically correct» dall’altro, restringano notevolmente il campo. Posso citare però due mostre recentissime che mi hanno diversamente colpito per la loro problematicità: «Kounellis in Six Acts» al Walker Art Center di Minneapolis, curata da Vincenzo de Bellis e «Just Above Midtown» (JAM) una piccola mostra al MoMA di New York dedicata a una galleria d’arte pilota, guidata e animata, tra il 1974 e il 1986, da Linda Goode Bryant, la prima a promuovere artisti afroamericani e di colore, alcuni dei quali, come David Hammons, sono poi divenuti famosi.
Documentando la vitalità di quell’esperienza attraverso video, documenti, opere fatte con materiali di scarto, il curatore è riuscito a renderla attuale restituendoci la freschezza e l’entusiasmo di allora; ritengo sia assai più utile e autentica nella battaglia per i diritti umani dell’obbligo artificioso imposto a musei, gallerie e università di scegliere gli artisti per il loro «gender», più o meno «fluid». La mostra di Kounellis, invece, la prima, se si eccettua quella alla Fondazione Prada di Venezia curata da Celant, non progettata dall’artista, pone l’enorme problema di come sia possibile esporre oggi l’opera di un artista o meglio di un’intera generazione, le cui mostre sono sempre state il frutto delle intuizioni generate dall’impatto con il luogo espositivo. La mostra di Minneapolis è bellissima, con opere straordinarie anche inedite ma è algida, formale, priva di pathos. Non è sporca di carbone.
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