Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliDa secoli il sistema dell’arte internazionale è il prodotto di una specifica cultura europeo centrica. Un cambiamento di prospettiva è necessario e reso sempre più urgente dal dibattito di questi anni. Per realizzarlo, bisogna partire da una riflessione sull’eredità culturale del colonialismo. Di questo si è parlato all’edizione 2022 di March Meeting, appuntamento annuale organizzato dalla Sharjah Art Foundation, istituzione pubblica della capitale culturale degli Emirati Arabi, nata nel 2009 con lo scopo di produrre, supportare e presentare arte contemporanea in questa zona del mondo.
Il ciclo di conferenze ha riunito dal 5 al 7 marzo personalità internazionali del mondo dell’arte e della ricerca, che si sono confrontate sul tema che dà il titolo a questa edizione: «The Afterlives of the Postcolonial».Tema in dialogo diretto con quello dello scorso anno, «Unraveling the Present», e con la 15ma Sharjah Biennial, organizzata dalla stessa fondazione e in programma per il 2023 con il titolo «Thinking Historically in the Present», concepito in collaborazione con il curatore Okwui Enwezor, scomparso nel 2019.
Come ha detto nel discorso di apertura dei lavori Hoor Al-Qasimi, presidente e direttrice della fondazione, l’idea di costellazione postcoloniale concepita da Enwezor ci chiede di ristrutturare la nostra comprensione della storia e della cultura. E i tre giorni di presentazioni, incontri e dibattiti hanno fatto proprio questo, componendo una costellazione ricca quanto complessa di tematiche che si intersecano su diversi livelli culturali, sociali e geografici.
L’intervento con cui si è aperto il forum ha gettato le basi per questa riflessione e per una revisione dei concetti e dei linguaggi ad essa legati. Gayatri Chakravorty Spivak, docente della Columbia University di New York e autrice di A Critique of Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), ha infatti invitato il pubblico del forum a passare dalla battaglia contro il colonialismo a quella contro il neoliberismo globale, colpevole di perpetuare la diseguaglianza sociale e lo sfruttamento delle classi più svantaggiate.
Questo, ha spiegato la studiosa, si fa riconoscendo innanzitutto la nostra complicità con il colonialismo perché l’oppressione non è nata con le colonie e il rischio è di usare il colonialismo come una scusa che ci consente di puntare il dito e dare sempre la colpa all’altro. Ha poi illustrato una serie di pratiche che, dal suo punto di vista, nel tentativo di «decolonizzare» il pensiero e le culture, non fanno che rafforzare le disuguaglianze. «[Si parla di] decolonizzare attraverso il ritorno alle lingue native: ma solo le élite conoscono le lingue colonizzatrici, agli strati più bassi le persone non sanno nemmeno cosa significhi decolonizzazione [...] ma capiscono benissimo le classi, perché quelle funzionano ancora», ha detto, spiegando poi che in alcune società postcoloniali sono tornati in auge modelli politici ed economici profondamente iniqui.
La studiosa ha liquidato ed etichettato come in malafede anche operazioni come quella con cui il Metropolitan Museum di New York, apponendo una targa, ha voluto riconoscere che il museo sorge sulla terra che una volta era dei nativi americani: «Gesti consolatori vecchi di secoli, ha detto, come chiamare arte quello che una volta consideravamo folklore, mentre ci dimentichiamo del genocidio». L’invito di Gayatri Chakravorty Spivak è quindi quello di «disfare» le nostre strutture mentali e superare la logica postcoloniale rivendicando invece la visione e il pensiero di Antonio Gramsci.
Con queste premesse, i tre giorni di March Meeting non potevano che aprire una vertiginosa panoramica sulle complessità di una riflessione sulle risposte e sulle eredità culturali, estetiche ed ideologiche del colonialismo che oggi si inseriscono in una presa di coscienza globale e collettiva, che include Black Lives Matter come le lotte del popolo palestinese, i movimenti per la giustizia climatica e le rivendicazioni dei diritti delle popolazioni indigene di vari luoghi del mondo.
Tutti aspetti che sono stati raccontati e si sono intrecciati nel corso del forum, con riferimento alle loro implicazioni nelle pratiche artistiche e curatoriali. All’interno del dibattito «Persistent Structural Inequalities: Settler Colonialism, Segregation and Apartheid» l’artista plaestinese Khalil Rabah ha portato l’esperienza del suo Palestinian Museum of Natural History and Humankind, «una impossibilità, come lo ha definito lui stesso, occupato ed esiliato, a casa e dovunque altro».
Suddivisa in dipartimenti come un museo tradizionale, questa istituzione immaginata e immaginaria è una raccolta di progetti in cui l’artista mette insieme segni, tracce di una cultura che non può depositarsi perché privata di un territorio, dando forma al desiderio collettivo nello spazio dell’assenza e della negazione. Il museo è un progetto in divenire cui l’artista lavora da anni e che ora viene per la prima volta esposto all’interno della mostra «What is Not» che Rabah ha aperto alla Sharjah Art Foundation in concomitanza con March Meeting.
In «Persistent Structural Inequalities: Indigeneity and Sovereignty», i relatori (curatori, artisti e scrittori...) hanno presentato diverse esperienze dalle Americhe e dall'Oceania che hanno evidenziato, da una parte, la ricchezza di linguaggi artistici delle popolazioni indigene, dall’altra la sistematica violenza e i ripetuti saccheggi che quelle popolazioni hanno subito (e in alcuni casi continuano a subire) per mano delle potenze coloniali.
L’artista e drammaturgo australiano Brook Andrew ha raccontato il caso degli alberi intagliati cerimoniali, creati da alcune delle popolazioni indigene della sua terra e tagliati e sottratti a quella terra dai colonizzatori, per essere poi trasportati ed esposti in vari musei del mondo. Andrew ha utilizzato l’esempio di questi alberi sacri per illustrare l’indifferenza del colonizzatore nei confronti dei valori culturali dei colonizzati, sotto la falsa premessa che le popolazioni indigene fossero primitive e «non civilizzate». L’artista ha trasformato questa storia in un progetto artistico, creando un testo in cui gli alberi diventano personaggi e dialogano con altre figure parte della storia.
Quello degli alberi sacri aborigeni è uno dei tanti esempi di oggetti sottratti alle comunità che li avevano prodotti e per cui avevano un valore. Oggi, con la crescente pressione per una decolonizzazione della cultura, è sempre più centrale il dibattito sulla restituzione di opere sottratte al Sud del mondo dai colonizzatori europei. La speranza di riportare le opere d’arte africane nei luoghi cui appartengono si concretizza nel progetto per un museo di arte africana a Benin City (Edo Museum of West African Art), presentato dall’architetto David Adjaye, progettista del National Museum of African American History & Culture di Washington, nel corso del dibattito dal titolo «Restitution and Repatriation of Looted Artworks and Artefacts».
Il museo immaginato da Adjaye non solo dovrebbe raccogliere e mostrare opere dell’Africa precoloniale restituite dai musei europei, oltre che reperti da nuovi scavi, ma soprattutto contribuire alla riscoperta della cultura africana, funzionando anche come centro di vita comunitaria e diventando propulsore di un percorso collettivo di riappropriazione della propria storia e identità. Il progetto prevede una struttura architettonica che richiama, nei materiali come nella morfologia, quella delle case tradizionali del Benin, in cui le funzioni della vita quotidiana erano distribuite intorno a un cortile. L’architetto ha raccontato che, nel concepire il progetto, lui e il suo team hanno parlato con diverse persone del luogo, rendendosi conto di come la cultura colonizzatrice abbia cancellato la memoria collettiva dell’abitare tradizionale sostituendola, ha detto, «con un’idea di città modernista che è diametralmente opposta al modo in cui quelle civiltà hanno vissuto per migliaia di anni».
Al dibattito sulle restituzioni è intervenuta anche Ngaire Blankenberg, direttrice del National Museum of African Art di Washington, che ha raccontato come, al suo arrivo alla direzione nel 2021, nell’affrontare la questione delle restituzioni si sia scontrata con una stratificazione di barriere burocratiche, istituzionali, culturali, sociali e psicologiche. La neodirettrice non ha messo in discussione l’opportunità né la necessità che le restituzioni avvengano, ma ha voluto sottolineare come la difficoltà di avviare il processo che possa portare le istituzioni museali a fare la cosa giusta, ritardi l’attivazione di altri processi necessari.
Le restituzioni, ha spiegato, sono solo il primo passo, poi bisogna «riparare, decolonizzare, africanizzare», avviare una trasformazione dall’interno, cambiare la funzione di queste istituzioni, spostandosi dalla pura protezione alla trasformazione culturale. «La prossima volta che vi vedrò, ha detto chiudendo il suo intervento, voglio poter parlare di come costruire un nuovo modello di museo».
Leggi anche: Con le restituzioni si riscriverà il colonialismo
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