Con le restituzioni si riscriverà il colonialismo

La storia del saccheggio coloniale è nelle scatole chiuse e non catalogate dei magazzini dei musei e va studiata da curatori legati ai Paesi di provenienza delle opere in questione

Bronzi del Benin
Dan Hicks  |

A tre anni dalla pubblicazione del rapporto Sarr-Savoia, commissionato dal presidente francese Emmanuel Macron, si sono viste restituzioni da parte di musei europei e nordamericani impensabili anche solo dieci anni fa. Lo scorso anno il parigino Musée du quai Branly ha restituito alla Repubblica del Benin le 26 opere del Tesoro di Béhanzin, il Metropolitan Museum di New York e la National Gallery of Art di Washington hanno restituito alla Nigeria i Bronzi del Benin (che decoravano il palazzo reale del Regno del Benin nell’attuale Nigeria) ed è inoltre da segnalare l’impegno formale del Governo del Belgio di restituire migliaia di oggetti alla Repubblica Democratica del Congo.

Un forte senso di beneficio culturale legato alle restituzioni si è sostituito alle vecchie narrazioni di perdita o degrado dei musei che le concedono, ne sono un esempio le celebrazioni dei ritorni nella Repubblica del Benin e le nuove interpretazioni delle collezioni coloniali elaborate dalla Germania nel nuovo portale online per l’arte coloniale saccheggiata.

Quali saranno le prossime sfide per la restituzione culturale? Le vecchie narrazioni richiedono tempo per svanire. Solo nel 2019 Hartwig Fischer, direttore del British Museum, ha ribadito una vecchia posizione intransigente, affermando al quotidiano greco «Ta Nea» che «la presa dei marmi di Elgin (al centro di un caso diplomatico irrisolto da oltre due secoli Ndr) è stata un atto creativo». Oggi è difficile immaginare un’affermazione del genere, in un recente incontro con il primo ministro greco Kyryakos Mītsotakīs, infatti, Boris Johnson si è dichiarato possibilista.

Sebbene siano ancora in corso tentativi del governo britannico di aggrapparsi al suggerimento neocoloniale secondo cui i beni rubati potrebbero essere restituiti, una nazione precedentemente colonizzata potrebbe ora ottenere il sostegno popolare per rivendicare i diritti di proprietà alla nazione precedentemente colonizzatrice dove la base etica è legata al possesso che conta più della legge? La determinazione e cooperazione internazionali stanno diventando più solide, come si è visto a dicembre quando la risoluzione proposta dalla Grecia «Restituzione o restituzione dei beni culturali ai Paesi di origine» è stata adottata all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

I progressi nelle restituzioni africane hanno finora coinvolto oggetti provenienti da collezioni ben note o singoli oggetti del Benin come quelli dell’Università di Aberdeen o del Jesus College di Cambridge. Ma le manifestazioni euro-americane del patrimonio africano rappresentano solo la punta dell’iceberg. Si sta gradualmente capendo che gran parte di questa storia riguarda ciò che è nascosto nei magazzini, spesso non catalogato, custodito in scatole chiuse da un secolo o in collezioni «orfane» dove non c’è un curatore africano per iniziare questo lavoro.

L’argomento che il lavoro sulla provenienza debba essere svolto prima di discutere la restituzione può diventare una tattica dilatoria. Anche per collezioni iconiche come gli oggetti del British Museum legati all’attacco al Benin del 1897, nessun elenco articolo per articolo è mai stato pubblicato.

Moltiplicando queste lacune e questi silenzi per milioni di altri oggetti africani detenuti da centinaia di istituzioni europee e nordamericane la prossima sfida per la restituzione diventa chiara. È difficile affermare che un museo si prende cura di una collezione se non è in grado di produrre un elenco accurato di ciò che contiene e della sua provenienza.

Per quanto tempo i musei possono aspettarsi di giustificare la conservazione del patrimonio africano al di fuori del continente senza documentare le loro collezioni con accuratezza e trasparenza? Mentre queste responsabilità continua a essere eluse nei musei, crescerà la richiesta di restituzioni che consentano di eseguire questo lavoro in contesti africani piuttosto che euro-americani.

Una generazione fa i musei europei e nordamericani utilizzavano i valori universali dell’Illuminismo per confutare le richieste di restituzione. Lo scorso settembre, nei lavori del Comitato Intergovernativo Restituzione e Restituzione dell’Unesco, il nuovo direttore del Museo dell’Acropoli ha affermato che «la restituzione dei Marmi del Partenone è una richiesta universale». Anche nel caso delle restituzioni africane, la falsa scelta tra appropriazioni universali o ritorni che giovano solo a un nazionalismo ristretto o a una politica identitaria sta cedendo il passo a un nuovo internazionalismo.

Questo è ciò che il rapporto Sarr-Savoy chiamava «etica relazionale». Nel libro, The Brutish Museums, ho suggerito che il 2020 potrebbe essere «un decennio di ritorni». La sfida è costruire relazioni che potrebbero portare alla restituzione di collezioni a lungo trascurate su una scala nuova e più ambiziosa, in modo che la ricerca non sia più esclusivamente nelle mani degli euroamericani, generando nuove comprensioni del colonialismo attraverso rapporti equi tra comunità, studiosi, istituzioni e nazioni.

Dan Hicks è professore di archeologia contemporanea all'Università di Oxford. Il suo ultimo libro, The Brutish Museums: the Benin Bronzes, Colonial Violence and Cultural Restitution , è ora in edizione economica


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