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Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliLa terra è una tela su cui disegniamo il nostro passaggio, spesso incidendo cicatrici profonde. È questa l’immagine che emerge dalla retrospettiva dedicata al fotografo canadese Edward Burtynsky (1955), appena inaugurata all’International Center of Photography di New York. La mostra, in corso fino al 28 settembre, è per Burtynsky la prima personale istituzionale in città dopo oltre vent’anni. Con più di settanta fotografie e tre ingrandimenti ad altissima risoluzione, la mostra è un’esperienza visiva di grande impatto e allo stesso tempo chiede di guardare dietro quella bellezza apparente.
Curata da David Campany, direttore creativo dell’ICP, la retrospettiva riunisce le immagini che hanno reso celebre Burtynsky, affiancandole ad alcune mai esposte prima. Le pareti dei due piani del museo si popolano di fotografie che sfidano l’occhio e la comprensione: alcune ricordano le tele bruciate di Burri, altre sembrano composizioni costruttiviste, altre ancora i quadri astratti di Klee. L’occhio si disorienta, si perde, vaga. Quando lo spettatore ritrova l’orientamento si accorge che non c’è niente di bello in quello che sta guardando, che la materia, in tutta la sua concretezza, è contaminata, rotta, malata. Da lontano, le immagini di Burtynsky sembrano astratte geometrie pittoriche. È solo avvicinandosi che si scopre la loro reale essenza. Quelle linee sono solchi nella terra, quei colori sono liquami di scarico, le texture sono tracce di estrazioni e sfruttamenti industriali e quei minuscoli puntini che appaiono qua e là sono gli esseri umani, siamo noi.
Il titolo della mostra, «The Great Acceleration», si riferisce al drammatico e repentino aumento delle attività umane e del loro impatto sulla Terra negli ultimi decenni. L’uomo prende sempre di più dal Pianeta e la sua presenza lascia segni sempre più profondi. Burtynsky, che ha trascorso oltre quarant’anni a documentare i modi in cui l’uomo ha trasformato il paesaggio naturale per soddisfare bisogni e desideri, ci restituisce immagini di un pianeta bruciato, solcato, increspato e rotto. Dalle miniere di rame del Messico alle saline dell’India, dalle risaie terrazzate in Cina ai giacimenti petroliferi dell’Azerbaijan, fino alle cave di marmo di Carrara e ai cantieri di demolizione navale in Bangladesh, il fotografo ha fatto il giro del mondo per ritrarre queste ferite. Ferite che l’uomo provoca e subisce, finendo per diventare a sua volta un segno o una texture, ingranaggio lui stesso del sistema. Lo si vede in una serie di ritratti di operai e operaie, raramente esposti prima, in cui l’individuo emerge nella ripetitività impersonale delle macchine industriali. A queste figure, come ai suoi paesaggi, Burtynsky riconosce una solennità e dignità che riescono a trascendere le ferite.
La mostra è organizzata tematicamente, concentrandosi su attività minerarie, sfruttamento petrolifero, grandi stabilimenti industriali, progetti infrastrutturali. Nelle grandi fotografie, i paesaggi diventano surreali, fatti di colori eccessivi e linee artificiosamente regolari. Al secondo piano del museo, stampate in dimensioni più piccole, sono in mostra anche alcune delle prime opere del fotografo, scattate nella prima metà degli anni ’80, che catturano la portata dell’agricoltura industriale e dell’estrazione mineraria in Canada.
Nelle etichette non ci sono molti dettagli su quello che stiamo guardando. Il fotografo non ci spiega, piuttosto ci offre riflessioni, sensazioni, emozioni. E d’altra parte non è documentario quello che fa Burtynsky, ma arte nella sua forma migliore, arte che, nel suscitare un senso di meraviglia, nell’evocare il bello ma allo stesso tempo rivelandoci la sostanziale bruttezza dietro quel bello di superficie, ci mette a disagio e ci costringe a riconsiderare non solo il nostro posto nel mondo, ma la parzialità del nostro sguardo. Ripercorrendo la carriera di Burtynsky, la mostra ci porta in giro per il mondo, mostrandoci come non ci sia angolo del Pianeta in cui l’uomo non abbia impresso il proprio drammatico segno. Compare l’America, con i suoi sobborghi dilaganti e compare l’Italia con la montagna mangiata dalle attività estrattive di marmo.
Burtynsky è spesso elogiato per la portata epica delle sue immagini, di quelle ampie composizioni a volo d'uccello che trasformano miniere, autostrade e terreni agricoli in astrazioni pittoriche. Ma, mentre stupiscono, le sue immagini ci inquietano. Le sue composizioni seducono con la simmetria e il colore, rivelando al contempo la silenziosa violenza dell'estrazione di risorse dalla Terra. Ciò che a prima vista appare bello è la cicatrice lasciata dal consumo. Burtynsky non ci dice cosa pensare né come sentirci, ma ci mette davanti a una tensione tra distacco ed empatia, tra spettacolarità e critica da cui non si riesce a distogliere lo sguardo. In un’epoca in cui la crisi ambientale è sempre più concreta ma il discorso su come affrontarla rischia di farsi troppo spesso astratto, «The Great Acceleration» ci ricorda che siamo noi a disegnare quotidianamente su quella tela.

Una veduta della mostra «The Great Acceleration» all’Icp di New York