Michela Moro
Leggi i suoi articoliLa biografia dell’architetto Stefano Boeri mostra come nella sua carriera abbia declinato quasi tutti i possibili paradigmi della cultura milanese e internazionale: professore ordinario di Urbanistica presso il Politecnico di Milano, ha insegnato in diversi atenei internazionali, da Harvard a Rotterdam e Losanna. Dirige il Future City Lab della Tongji University di Shanghai, che studia la mutazione delle metropoli planetarie. Nel 2008-09 ha firmato con Jacques Herzog e Ricky Burdett il Masterplan di Expo 2015 a Milano. Direttore delle riviste «Domus», 2004-07, e «Abitare», 2007-11, ha pubblicato numerosi libri, ultimo in ordine di tempo è Green Obsession (Actar, 2021). Assessore alla Cultura, Moda e Design del Comune di Milano dal 2011 al 2013, aveva dato il via alle rassegne «BookCity» e «Piano City» e promosso la creazione del Museo della Pietà Rondanini di Michelangelo al Castello Sforzesco.
Nel 2016 partecipava alla ricostruzione dei centri di Amatrice e Norcia, colpiti dal terremoto. È stato membro del comitato scientifico delle Gallerie degli Uffizi di Firenze e dal 2017 è ideatore e direttore artistico della Milano Arch Week. Copresidente del comitato scientifico del World Forum on Urban Forests, Forum globale sul tema della forestazione urbana, dal 2020 è presidente del comitato scientifico di Forestami, il progetto volto a piantare 3 milioni di alberi nell’area metropolitana di Milano entro il 2030. Boeri è noto per il Bosco Verticale di Milano, edificio residenziale rivestito da oltre 700 alberi e 20mila piante: esempio di forestazione urbana che concepisce la vegetazione come elemento essenziale dell’architettura, realizzato nel 2014. Dal 2018 è presidente della Fondazione La Triennale di Milano.
Dal suo panottico osservatorio, la Triennale, guardando a Milano da un punto di vista culturale, qual è il problema più urgente?
Questa città non ha ancora elaborato il lutto della pandemia, non abbiamo avuto voglia e tempo di capire che cosa è successo davvero. Abbiamo perso una parte importante della nostra intelligenza, donne e uomini che sono spariti nel silenzio, nell’assenza della possibilità di un lutto; inoltre abbiamo visto la città vuota, senza macchine, abbiamo visto quanto potrebbe essere diversa una città che dà spazio alla vita quotidiana in modo differente. Ma avremmo dovuto ragionare di più sugli effetti e sulle cause della pandemia: c’è stata una ripresa meccanica, a mio parere, molto frenetica, come se Milano avesse ripreso muscolarmente, come se non fosse successo nulla. Il problema dell’aria è per me molto serio. Era chiaro che Milano, come altre città con un fortissimo inquinamento dell’aria dovuto al microparticolato, durante la pandemia ha registrato un’intensità di diffusione del Covid molto più alta; quindi, la grande questione che andava posta subito era quella per ridurre i veleni. Tipicamente questo doveva essere un argomento su cui valeva la pena fare un’esplorazione seria e da questo punto di vista la cultura poteva fare di più. Tu devi porre le domande, la politica poi fa, però avremmo dovuto fare di più.
Oltre questi eventi epocali, quali sono i fattori principali che fanno fare dei passi alla città da un punto di vista culturale o politico insieme?
Quando nelle istituzioni si riesce a costruire un’operatività che unisce le idee con la capacità pragmatica dell’istituzione nel suo insieme di muoversi. L’esperienza dell’Assessorato alla cultura per me è stata bellissima, per quanto breve: sul piano burocratico-amministrativo c’era totale condivisione con la direzione, e quindi siamo riusciti in un anno e otto mesi a mettere in moto una lunga serie di iniziative. Lo stesso è successo con Triennale: quando tu riesci a portare delle idee che combaciano con la disponibilità e la forza, queste sono le istituzioni che cambiano la città. Le quattro grandi istituzioni, pilastri pubblici di Milano, la Scala, il Piccolo, Brera e la Triennale, quando girano hanno una forza pazzesca, però abbiamo visto che a volte non girano e quindi si ferma tutto.
Ci sono stati dei cambiamenti non solo nelle istituzioni, ma anche nel pubblico, nella fruizione? Parlando della Triennale, è cambiato l’atteggiamento del pubblico rispetto alla cultura?
L’internazionalizzazione della città negli ultimi anni è stata impressionante, l’aumento di visitatori e pubblico internazionale giovane che abbiamo registrato è stato incredibile. I dati su Milano sono molto interessanti: negli ultimi 10 anni la città ha perso 400mila abitanti e ne ha guadagnati 500mila, quindi su una città di un milione e mezzo è un terzo della popolazione che cambia. Questo ricambio ha favorito la presenza di giovani professionisti, dirigenti d’azienda di multinazionali o di aziende che avevano reti internazionali. Questo cambiamento si legge moltissimo perché è una generazione molto attenta alla fruizione culturale di livello, e l’abbiamo registrato. Poi, in generale, l’offerta culturale è cresciuta e quindi la presenza turistico-culturale. I dati di Triennale sono, negli ultimi anni, molto buoni. Oggi intorno ai 600mila visitatori, in aumento rispetto anche all’anno della nostra Esposizione Internazionale, che di solito incrementa gli ingressi.
Quali sono state le dinamiche che hanno reso possibile avere 600mila visitatori?
Sei anni fa abbiamo deciso di bloccare qualsiasi sponsorizzazione su eventi che non fossero programmati da noi; quindi, abbiamo costruito un programma culturale e poi abbiamo cercato dei partner che aderissero al programma e ci aiutassero a promuoverlo, perché la Triennale allora era una sorta di spazio in affitto per cose estemporanee. Questo ci ha permesso di dare un profilo molto più preciso, più chiaro e più spendibile, anche sul piano pubblico, di che cosa la Triennale poteva fare. Abbiamo trovato dei partner, penso a Fondation Cartier, all’inizio anche a Eni, poi Lavazza, insomma una serie di partner che hanno detto «ci interessa il vostro progetto, la vostra identità, ci associamo».
Pensa che l’assetto che prenderà la città con i nuovi grandi sviluppi urbanistici avrà un impatto sulla vita della città e sulla cultura?
Sì, un po’ succede già oggi, presenze come l’HangarBicocca e la Fondazione Prada sono state molto importanti nel dare il segno di una città che ha una dimensione diversa. Adesso la gente conosce della città dei luoghi nuovi, si spinge in molte direzioni. Anche il Mudec potrebbe essere un altro polo, si stanno creando una serie di punti, per la cultura alta. Poi c’è un’altra sfida, che è quella invece della cultura più popolare, di accessibilità diffusa. Penso alle biblioteche comunali, il lavoro iniziato con Tommaso Sacchi è molto interessante, è una rete pazzesca, sono più di 20 biblioteche comunali diffuse in città. Milano è una città piccola, la cosa interessante, e anche problematica, è che è una metropoli a tutti gli effetti, ma piccola, con un’enorme densità di servizi, di offerta culturale, di eccellenze in un territorio molto ristretto. È una grande risorsa, a Milano si può andare a piedi, i ragazzi che studiano usano le bici. Questa è la nostra grande sfida perché oggi avremmo bisogno di guardare una Milano più ampia, dovremmo giocarci una carta diversa, in un’ottica più urbanistica. Oggi avremmo bisogno di una città che ingloba almeno tutta l’area metropolitana, tutti i centri esterni, sono 131 i Comuni dell’area metropolitana esterna, da Rozzano a Segrate a Magenta, sono un milione e mezzo di persone in più, quindi saremmo 3 milioni. Tra la città centrale e le città intorno ci sono dei parchi pazzeschi, tra cui il Parco Sud: se noi inglobassimo veramente queste realtà sarebbe molto interessante anche dal punto di vista culturale e urbanistico, quella è la città vera.
Aprile è l’alta stagione della cultura milanese tra arte e design, la Triennale ha da poco fatto una mostra sulla pittura italiana, ma in realtà qual è lo stato dell’arte milanese?
Noi abbiamo una programmazione molto articolata, per circa due mesi siamo stati un museo d’arte contemporanea, perché avevamo Pittura Italiana, Ron Mueck e Juergen Teller. Però diciamo la verità: Milano non ha un museo d’arte contemporanea, e quindi ci sono delle supplenze. Ogni tanto la Triennale fa questo, ogni tanto c’è qualcosa che viene da Fondazione Prada, HangarBicocca, Palazzo Reale qualche volta. C’è una realtà di eccellenze diffuse, manca un’immagine, manca un’idea e manca forse un evento capace davvero di dar forza a questa varietà.
Quali sono i bisogni culturali di Milano che non vede ancora soddisfatti o migliorati?
Stiamo preparando l’Expo che ha come tema le diseguaglianze, «How to mend the fractures of humanity». Stiamo lavorando in particolare con il mondo dei ricercatori internazionali che lavorano alla Bocconi e al Politecnico. Parliamo di diseguaglianza non solo di reddito, ma dell’accesso ai servizi e questo è un tema pazzesco. Quello che manca a Milano è rendersi conto che c’è una popolazione universitaria di 200mila studenti di cui un 30% stranieri e questa intelligenza che noi abbiamo contattato, perché abbiamo lavorato con molti di questi ricercatori, PhD, Master, è pazzesca. Questa è la forza che Milano potrebbe mettere in campo e che andrebbe usata.
È possibile, al netto degli eventi eccezionali, progettare il futuro culturale di una città come Milano?
Certo. Milano ha questi quattro pilastri pubblici, Scala, il Piccolo, Brera e la Triennale, che devono parlarsi. Poi ha almeno tre grandi pilastri privati Fondazione Prada, HangarBicocca, Fondazione Feltrinelli, poi ha la rete dei Musei Civici, e poi aggiungiamo anche il sistema delle principali gallerie e, su scala diversa, il sistema delle biblioteche, degli spazi diffusi dell’arte, che dovrebbero dar vita a una forma di comunicazione, nonostante la ovvia competizione, che può anche essere collaborativa. Quando ero assessore, con Francesco Bonami avevamo immaginato un museo metropolitano. Avevamo costruito una sorta di immagine unitaria di tutta l’offerta culturale, che magari potrebbe tradursi nella migliore delle ipotesi in un biglietto comune, o anche in un’app, semplicemente andando a Palazzo Reale, vai al Museo Metropolitano di Milano e hai tutto sotto un unico cappello. Per me questo sarebbe da fare, più che non star lì a dire facciamo un grande progetto unitario perché poi ognuno giustamente va per la sua strada.
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