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Ettore Molinario nella sua casa che nel 2024 diventerà casa museo

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Ettore Molinario nella sua casa che nel 2024 diventerà casa museo

Per Ettore Molinario è tutta una questione di pelle

Il collezionista, che aprirà la sua casa museo nel 2024, illustra le ragioni della sua particolare raccolta dedicata all’identità di genere e al potere trasformativo dell’abito con speciale attenzione per il latex e la pelle

Chiara Massimello

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Ettore Molinario è collezionista di fotografia da oltre trent’anni, ha lavorato a lungo in finanza e preso una laurea in Storia dell’arte. Il prossimo anno inaugurerà a Milano la sua casa museo, un luogo che si preannuncia visionario dove troverà sede la sua collezione dedicata a un tema oggi molto attuale: l’identità di genere.

Come definirebbe la fotografia di moda e com’è cambiata negli anni?
Oggi la fotografia di moda è tema di mostre, è museo. Penso alla retrospettiva di Helmut Newton appena aperta a Palazzo Reale a Milano, a quella di Guy Bourdin da poco inaugurata al Silos di Armani e a «Chronorama» che ripercorre la bellezza degli archivi Condé Nast a Palazzo Grassi a Venezia. Ma all’inizio degli anni ’90 la fotografia di moda era «solo» uno strumento di seduzione, non l’oggetto magico che continuava il suo incantesimo anche fuori dalle pagine di un giornale. Ci voleva all’epoca un desiderio, un’intuizione, una necessità personale in più per iniziare una collezione di fotografia che partisse dalle immagini di moda e dai suoi protagonisti, davanti e dietro l’obiettivo, e diventasse altro.

Eppure questa intuizione è giunta. Qual è il sentimento che anima il suo interesse per la moda e la fotografia?
Ho iniziato toccando e ricordando ciò che amavo toccare nell’età in cui si formano le prime immagini e le prime ossessioni: toccando un guanto di gomma, uguale a quello che Giorgio de Chirico aveva appeso nel suo «Canto d’amore». E dal primo contatto ho capito che il lattice, morbido e alieno alla natura umana, ma così simile alla pelle tanto da sostituirla e fare un feticcio della mano che riveste, sarebbe diventato la materia dei miei piaceri e del piacere che li riassume tutti: collezionare. Ho iniziato a collezionare fotografie di moda alla fine degli anni ’80 e nei primissimi anni ’90, quando la moda era l’emblema di una società che, dopo tante sedute di autocoscienza e impegno politico, e relativo fallimento, tornava a celebrare l’individualità, la più eccessiva e trasgressiva, la più ricca e potente, quella che guardava l’abito come l’espressione più alta non solo del corpo ma dell’intero corpo sociale. In quel decennio esaltante la moda è stata un meraviglioso artificio che permetteva di cambiare pelle a chi avesse il coraggio di inventarsi e rinnovarsi costantemente. E per far teatro del proprio egotismo supremo non c’erano più gli antichi salotti, troppo polverosi, ma una scena planetaria. Un trionfo.

Qual è la base della sua ricerca?
I «miei» materiali sono quelli che Walter Benjamin ha inserito nella categoria del «sex appeal dell’inorganico», dunque il latex, la pelle, la vernice, il poliestere. Nei miei anni newyorkesi i personaggi che allora indossavano quegli stessi materiali e divenivano i testimoni di una mia uguale esigenza di sperimentazione erano Madonna, ritratta da Herb Ritts in corsetto di pelle nera, Grace Jones nell’interpretazione di Bill Cunningham, David LaChapelle e le sue tute di vernice, Helmut Newton, cantore del feticismo, e Robert Mapplethorpe, avatar di «Man in polyester suit». Vivere a New York ha fatto la differenza. Potrei dire anche che frequentare i club S&M di Londra è stato illuminante. Ma New York aveva capito il potere della fotografia, economico e culturale insieme, prima di qualunque altra città. Certo, a Parigi aveva vissuto Charles Baudelaire e in «Il mio cuore messo a nudo» aveva confessato di «glorificare il culto delle immagini, mia grande, mia unica, mia primitiva passione». A Parigi, certo, la moda era nata insieme alla fotografia nella metà dell’Ottocento ed entrambe avevano influenzato il concetto di modernità. Ma è a New York che un fotografo di moda come Edward Steichen, interprete di «Vogue» e «Vanity Fair», diventa direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA dal 1947 al 1961, ed è sempre a New York che una donna leggendaria come Diana Vreeland, direttrice di «Vogue», reinventa The Costume Institute del Metropolitan Museum e nel 1973 organizza la mostra epocale «The world of Balenciaga». «The eye has to travel», diceva Vreeland sottolineando l’energia instancabile che l’occhio deve avere nell’incontro con l’immagine fotografica. Un viaggio sulla superficie (e agli esordi amavo le carte glossy, quasi a volermi specchiare), ma soprattutto un viaggio dentro l’immagine e dentro l’identità che si costruisce attraverso l’immagine, l’abito e dunque la moda. Viaggiando nelle mie pulsioni, facendomi più consapevole, mi sono avvicinato all’esperienza del travestitismo, che considero la più delicata e potente.

Ci sono delle fotografie che rappresentano questo suo viaggiare e il senso ultimo del suo collezionare?
Due immagini, entrate nella mia collezione nei primissimi anni 2000, hanno indicato la via da percorrere, e parlo dello «Scherzo di follia», il più famoso ritratto della contessa di Castiglione di Pierre-Louis Pierson, ingrandimento degli anni ’30 di cui esiste solo un’altra copia al Met, e «Distorsion #34» di André Kertész. Entrambe segnano un passaggio fondamentale: la prima perché la «follia» creativa della contessa di Castiglione conferma il potere sciamanico e trasformativo dell’abito, come farà poi la marchesa Casati, e la seconda perché nella sua allucinazione surrealista le forme fluide del corpo anticipano la fluidità del genere. Potrei anche aggiungere di non essermi fermato alla contemplazione di autori straordinari come Claude Cahun, Lisetta Carmi, Nan Goldin, Zorrò (alla francese), Cindy Sherman, Pierre Molinier e lo stesso George Hoyningen-Huene che ritrae «en travesti» un elegantissimo Cecil Beaton, immagini oggi nella mia collezione, ma di aver io stesso «indossato» l’esperienza del travestitismo e di aver provato sulla mia pelle il piacere straniante di un’altra natura. Una performance infinita, la mia collezione, che mi permette di mostrare pubblicamente quello che vivo in privato. Una conferma, perché la moda e la fotografia che l’interpreta sono davvero lo specchio della nostra epoca. Ed è una consolazione, anche, perché la pelle di noi umani invecchia, mentre la flessuosità seducente e inalterabile del latex ci ricopre, ci accarezza e ci protegge dallo scorrere malvagio del tempo. 
 

«Madonna II» (1990) di Herb Ritts in cui la popstar sfoggia un corsetto di pelle nera © Herb Ritts Foundation - Cortesia della Collezione Ettore Molinario

Chiara Massimello, 14 aprile 2023 | © Riproduzione riservata

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