Tutte le ossessioni di Newton

L’allestimento di 250 scatti in Palazzo Reale ripercorre tutta la carriera del fotografo e presta grande attenzione alla sostenibilità

«Amica. Milano» (1982), di Helmut Newton. © Helmut Newton Foundation
Ada Masoero |  | Milano

Quando nasce, a Berlino, nel 1920, in una ricca famiglia ebraica, il suo nome è Helmut Neustädter. Quando, nel 1956, dopo essere fuggito dalla Germania nazista e aver lavorato come fotoreporter, apre a Melbourne un piccolo studio fotografico (grazie al sostegno della futura, inseparabile moglie June, attrice), diventa Helmut Newton e con questo nome anglicizzato raggiunge la fama planetaria che lo ha accompagnato in vita (è scomparso a West Hollywood nel 2004) e che tuttora lo accompagna.

Nei cinque decenni in cui ha lavorato, i suoi scatti sono usciti sulle riviste di moda più influenti, quelle che davvero, allora, dettavano ovunque i modelli del gusto e dell’eleganza: dopo «Vogue Australia», saranno tutte le edizioni mondiali della stessa rivista e di altre, altrettanto patinate. Perché con la moda e per la moda Helmut Newton ha lavorato per gran parte della sua vita, e per la moda ha creato, su quelle pagine e nelle campagne pubblicitarie di importanti marchi, un immaginario del tutto nuovo sul piano della forma, della composizione, dell’invenzione.

Fino al 25 giugno, 250 sue immagini sono esposte a Milano, in Palazzo Reale, in un allestimento che presta grande attenzione alla sostenibilità, nella mostra «Helmut Newton. Legacy», prima tappa di un tour che lo porterà a Roma all’Ara Pacis, poi a Venezia, ne «Le Stanze della Fotografia».

La mostra, grandiosa, è curata da Denis Curti, direttore artistico de «Le Stanze della Fotografia», e da Matthias Harder, direttore della Helmut Newton Foundation, promossa da Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Marsilio Arte. Il percorso lo segue dagli esordi, negli anni Cinquanta, fino ai suoi ultimi anni, in un viaggio scandito per decenni che ruota sì intorno alla moda ma che al contempo si nutre delle sue «ossessioni».

Come ci spiega Denis Curti, «la mostra mette in fila cronologicamente la moda, il ritratto e il nudo, le tre “verticali” su cui si fonda il suo percorso. Ma all’interno di questa verticalizzazione fanno il loro ingresso i temi con cui lui, che quando inizia è circondato da figure gigantesche come Richard Avedon o William Klein, sa trovare la propria specificità. Se loro avevano portato le modelle fuori dagli studi, lui sceglie di raccontare la moda con una vera narrazione. I suoi sono racconti. Non più immagini singole ma sequenze inserite in un contesto, spesso alimentato dalla sua passione per la cronaca nera. Newton era abbonato a riviste-spazzatura di questo tipo, osservava le loro fotografie, talora le rielaborava nei suoi scatti: come in quello per Prada in cui si vede una grande borsa di coccodrillo, aperta e rovesciata a terra, davanti alle (sole) gambe di una donna caduta al suolo». Svenuta? Morta? Aggredita? Non è dato di saperlo, perché l’ambiguità e lo spaesamento sono due delle «armi» di cui Newton si serve per sedurre chi guarda le sue immagini: «La mia fotografia? È come un film noir, come “Pulp Fiction”», ripeteva.

L’altra sua «arma» è l’uso del nudo, un nudo ostentato, con cui forza la morale corrente, perché sebbene tutto accadesse negli anni della «liberazione sessuale», certe sue fotografie, allora, non potevano ancora essere accettate. «Accadde, rammenta Curti, persino con Yves Saint-Laurent, che nel 1975 rifiutò la foto in cui, alla modella che indossava un suo smoking in una strada buia del Marais, a Parigi (il titolo è «Rue Aubriot», NdR), Newton aveva affiancato un’altra modella nuda: lo stilista scelse la versione in cui c’era la sola modella vestita».

Quell’immagine anticipava la serie famosa dei «Naked and Dresses», 1981: dittici in cui Newton accostava le foto di moda e quelle in cui, finito lo shooting, chiedeva alle modelle di posare, nude, nello stesso spazio e nelle stesse posture: «le chiamava “la versione Newton”», racconta Curti. Il tutto, sotto gli occhi di June (di cui, in chiusura, va in scena un interessante video del marito al lavoro): imperdibile documento del loro legame è l’immagine del 1981 «Self-Portrait with Wife and Models» per «Vogue» dove, ironicamente, è lui a indossare l’impermeabile Burberry’s cui è destinato il servizio, mentre fotografa da dietro una modella nuda riflessa frontalmente in uno specchio. E June, un po’ annoiata, assiste.

Di lì sarebbero scaturiti i «Big Nudes»: nudi frontali a grandezza naturale di donne bellissime, atletiche, assertive, forti e indipendenti. Le femministe lo accusarono di svilire e mercificare il corpo delle donne; lui invece intendeva celebrarle, le donne, convinto com’era che fossero «molto più forti degli uomini». E in effetti quegli scatti, certamente provocatori, sono sempre raffinati e, spesso dichiaratamente ambigui, non sono mai volgari. Del resto Newton, che di sé diceva «non sono un artista, sono un fotografo», ammettendo anche di essere «un voyeur professionista», sosteneva, sornione, che «bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione».

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