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«Nudo» (1923), di Edward Weston

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«Nudo» (1923), di Edward Weston

«Pas de deux» | La passerina

Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)

Stefano Causa, Arabella Cifani

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Seni. Occhi. Bocca. Mani. E labbra. Sederi e inguini. Si può raccontare una storia dell’arte anche attraverso le parti del corpo. Abbiamo provato a farlo in questa serie spegnendo internet e riallenando il muscolo della memoria. Non è vero come dicono che cultura è tutto quel che rimane quando uno si è dimenticato tutto? Ecco. Tra storia e immaginazione, lavorando di accoppiamenti giudiziosi e nuovi nessi abbiamo provato a ripensare perché le labbra di Pino Pascali e del logo degli Stones sono la sineddoche della sensualità contemporanea più estroflessa e aggressiva. E perché i piedi e le mani siano un valido indicatore non solo dello stile di un artista ma una cartina al tornasole del realismo occidentale. Oggi che viviamo stagioni di narcisismo autoreferenziale interrogarsi sul corpo, e non solo sui lati a e b, ci sembra urgente. Oltre che doveroso.

Una valigia senza cinghie, una toppa senza chiave
I francesi la apostrofano con chatte. Gli angloamericani pussy. Per noi il frutto del fico. Però non suona allo stesso modo né con la stessa gradazione di affetto. Anche l’organo femminile si offre o si offende a seconda di come lo si interpelli. La perifrasi è tutto. Micina, topina, passerina sono graditi purché il serraglio sia declinato al diminutivo per evitare connotazioni regionalistiche spinte. Occorre lavorare di approssimazioni attenti a non sbagliare anche una vocale (ne sa qualcosa un mio allievo che cadde su una vulva di dittico).

Quando il quarantenne Luciano Bianciardi presentò quell’apice della letteratura italiana negli anni del sorpasso che è la traduzione di Tropico del Cancro di Henry Miller non esitò a voltare «cunt» in «fica» giunto al pezzo, oggi scorrettissimo, di Irene e Llona. «The trouble with Irene is that she has a valise instead of a cunt. She wants fat letters that shove in her valise». Così Bianciardi nel 1962: «Il guaio di Irene è che, invece, della fica, ha una valigia. E vuole lettere lunghe da stipare in quella valigia…». E quanto a Llona: «Una valigia senza cinghie, una toppa senza chiave. Aveva bocca tedesca, orecchi francesi, culo russo. Fica internazionale…. Una fica su un milione Llona! Tutta fica, e un culo di vetro su cui si può leggere la storia del medioevo». Cunt equivale a fica: non ci stanno santi! Non puoi attenuare Miller, tramortendolo a colpi di patatine.

Ma la fica internazionale come si sarebbe dipinta nel 1935? Qual è il clima figurativo al Tropico, scritto da un americano a Parigi? Non certo Matisse o Bonnard, né il giovane Balthus; men che mai il Picasso che affila i coltelli per «Guernica». Meglio i nudi a gambe divaricate del bulgaro Pascin, scomparso nel 1930: tanto più desolanti però, privi come sono di questa apocalittica quota carnalista. Forse meglio, i nudi di Fausto Pirandello? Oppure Tina Modotti fotografata da Weston quindici anni prima?

Certo siamo lontani dal desolante siparietto postcoitale approntato da Stanley Spencer nel 1937, nel doppio ritratto con la seconda moglie, dove carne fa rima con carne, autentico e forse più penetrante precedente di Lucian Freud. Ma la fica internazionale glorificata da Miller non sembra apparentarsi neanche alle inevitabili sovrainterpretazioni vaginali di un vertice dell’informale come il «Sacco e Oro» (1956) di Burri di Palazzo Albizzini. Improbabile, d’altronde, che Miller fosse venuto a conoscenza di alcuni dei cento e passa disegni e acquerelli di Rodin (morto nel 1917), il suo museo segreto, la più violenta immersione, umorale e olfattiva nell’antro femminile di fronte ai quali l’oggi celebre Courbet, anno 1866, Museo d’Orsay, si conferma per un poco invitante close-up pseudo ginecologico.

Da dove veniamo tutti va saputo raccontare. Il fatto è che l’arte contemporanea con l’origine del mondo ha un rapporto da ricontrattare. E saranno sempre contatti un poco tiepidi. Ma si capisce: nella crisi dei linguaggi tradizionali, tra prime e seconde avanguardie, che vuoi ancora cianciare di sesso e di orge con le banane come nei tropici milleriani. Cézanne (e quel subcontinente del tardo Ottocento che è il primo Novecento) hanno raffreddato, fino a spegnere, le pulsioni che sostengono la gioia di vivere degli impressionisti e di un romanzo come Bel-Ami dove non si fa altro che mangiare e fottere.

Cosa avrebbe detto il protagonista di Maupassant se, in un salto temporale di un quarto di secolo, avesse bussato al bordello delle «Demoiselles d’Avignon», anno 1907? Armato di retta e squadra s’era fatto strada tra gli inguini Picasso: le signorine del quadro più rivoluzionario e meno erotico del Novecento hanno fiche che sono loghi perfetti. Anche la «Driade» del 1908, tecnicamente, ha una fica di legno (meglio non avvicinarsi), che più di tutte ricorda le figure di Andrea Vesalio del De Humani corporis fabrica (1563). Il cubismo analitico si sarebbe rivolto a interpolare chitarrine (vere). Il sesso distrae. Richiesto da Maupassant su come migliorare (come scrittore), Flaubert gli aveva consigliato: meno puttane e meno canottaggio!

Nel Novecento la gattina e la passerina diventano sempre più stilizzate e tutto il Novecento batte e ribatte su quella siglatura. Prima che in rete si desse la stura a un flusso infinito di amenità resistibili esistevano libri, da edicola di stazione, stampati male e incellofanati peggio, con barzellette sui carabinieri, sulle suocere, sugli inciampi dell’età e sulla fica. Di queste freddure, mestissime, e oggi tutte scorrette, ne abbiamo conservata una sola: «Perché la figa non passa mai di moda? Perché ha un taglio classico». Applausi (a denti stretti).

La battuta però è da storicizzare e, oggi, dove il taglio classico funziona nelle sartorie vieux-jeu, rischia di apparire datata. Il taglio classico che, piume comprese, tocca le maggiori esorbitanze inguinali della nostra storia (la «Venere» di Urbino e la «Maja desnuda»), oggi è da riconsiderare. Senza andare oltre, lo si appura d’estate tra glabri forzati del tatuaggio e inguini che, almeno andandosene per intuizione, sembrano tutti concetti spaziali di Fontana, attese (è il caso di dire), rigorosamente privi di quello che Elio definirebbe il «boschetto della mia fantasia». Anche per questo è giusto per nostalgici la «Grande Fessa» dell’ultimo film di Paolo Sorrentino (2020), una scena che, ormai mezzo secolo dopo, non è che un virtuosistico rovesciamento, virato sulle parti basse, della Tabaccaia di «Amarcord».

E tuttavia, nella vita come nell’arte, quando si perde una cosa se ne guadagna un’altra: l’andazzo odierno della depilazione, tra piste di atterraggio e promesse di pratini (a proposito: l’«Olympia» lo è? Così parrebbe) ci rende meglio edotti sulla strenua opera di stilizzazione delle avanguardie: da Brancusi a Giacometti. Dinanzi alla «Donna che cammina» della Guggenheim di Venezia, 1936, acefala e senza braccia, colorata solo di luci e ombre tenerissime, non diresti mai che è tutta fica («all cunt»), e quella discretissima incisione tra le gambe non sembra proprio una valigia. Ma se stilizzi tutto, direbbe il poeta, alla fine stilizzi anche la passera.

[Stefano Causa]


Facciamo Anásyrma
Forse è solo una leggenda, ma le cronache antiche ricordano che Caterina Sforza, assediata nella rocca di Ravaldino e con i nemici che teneva in ostaggi i sei figli minacciando di ucciderli, sarebbe apparsa sugli spalti e, tiratasi su le gonne, avrebbe detto mostrando il pube: «Se volete impiccateli, io possiedo quanto serve per farne altri». La signora fece un uso politico del suo sesso, ma il sesso delle donne è sempre stato considerato un oggetto fra politica, arte e cultura, che poteva fare paura e che era da controllare e, come tale, molto più rappresentato di quel che pensiamo anche in epoca medievale.

Come non ricordare la donna di Porta Tosa a Milano che accoglieva anticamente i milanesi all’ingresso della città a gambe divaricate nell’atto di radersi il pube? Su questo bassorilievo, dove l’ardita milanese fa il caratteristico gesto dell’«anásyrma» (atto di tirarsi su le gonne per mostrare il sesso) rimosso su ordine del cardinale Borromeo (oggi al Castello Sforzesco) l’interpretazione più corrente e corretta è quella di una figura che fa un gesto apotropaico di sfida, provocazione e scherno per spaventare i nemici (e ci riesce di certo). In quest’ottica si ritrovano immagini femminili che mostrano, anzi proprio esibiscono ampiamente, le parti intime anche in molte chiese ed edifici pubblici medievali (ricordiamo, fra i tanti il fregio esterno della chiesa di Notre Dame di Bruyères-et-Montbérault, il modiglione della Chiesa di Santa Radegonda di Poitiers e quello inglese di Kilpeck Church, nell’Herefordshire).

Il fatto di avere soggetti così stravaganti attaccati su chiese in cui pregavano esangui e penitenti monaci e suore che immaginiamo occupati a flagellarsi, ci lascia invero ancora oggi un po’ perplessi: nessuno in una chiesa moderna oserebbe di certo mettere un dipinto o una scultura di questo genere. Nel mondo nordico, dove tali figure abbondano, in realtà il fenomeno era collegato anche al «Risus Paschalis», ovvero a usi rituali che prevedevano, proprio durante la liturgia pasquale, che il sacerdote suscitasse l’ilarità dei fedeli fischiando, giocando, danzando, dicendo e facendo sconcezze sull’altare (anásyrma compresi) per dimostrare la gioia della resurrezione di Gesù. Le figure femminili così oscene, coi loro anásyrma facevano anche parte di questo gioco, che poi gioco non era, ma era un modo per partecipare della natura, della resurrezione della carne in Cristo, della corporeità umana, in una dimensione teologica del piacere sessuale che noi, figli della controriforma, non riusciamo più nemmeno ad immaginare.

D’altra parte il gesto di tirarsi su le gonne per mostrare le proprie grazie pare che avesse da sempre un effetto spaventoso sui nemici e Plutarco narrava del coraggio delle donne persiane che rispedirono a combattere i propri uomini i quali durante una battaglia con i Medi se l’erano battuta in ritirata. Le indignate signore bloccarono loro l’ingresso in città, tirando su le gonne e rispedendoli a guerreggiare. Piuttosto di vedere l’orrendo spettacolo gli armigeri preferirono tornare di corsa in battaglia. Il tema in arte fu trattato efficacemente e con molta eleganza da Otto van Veen in un quadro al Kunsthistoriches Museum di Vienna e da Frans Francken il Giovane in un dipinto transitato recentemente sul mercato antiquario. Né va dimenticato il grande Pierre Subleyras che sulla passerina di una signora ci ha letteralmente dipinto, con gioconda impudicizia, una stupenda tela (oggi all’Ermitage di San Pietroburgo) che illustra una favola beffarda di La Fontaine.

E poi c’è l’inquietante «Arma Christi» che teoricamente dovrebbe essere una rappresentazione degli strumenti della Passione di Cristo, atta a fare meditare il fedele, e quindi un tema religioso e altamente spirituale, ma che in mano ad alcuni miniatori, come Jean le Noir che dipinse a metà Trecento le pagine del Salterio di Bona di Lussemburgo, diventano un’arma contundente e piuttosto pesante con la piaga sanguinosa del costato di Cristo trasformata in una caverna che tutt’altro evoca.

E non è mica la sola. Il Salterio di Bona si colloca all’interno di profluvio di simili immagini miniate tutte ugualmente forti e, in alcuni casi, veramente al confine con lo splatter. Le miniature furono sempre un settore privilegiato per rappresentazioni di audaci nudi femminili, come testimoniano, ad esempio, quelle parigine del Des cas des nobles hommes et femmes di Boccaccio, del 1410, dove una sensuale moglie di Candaule si mostra a noi completamente nuda e sprofondata nel sonno.

Poi arriverà il Rinascimento, o almeno quello che noi consideriamo tale e i nudi e le scene erotiche si sprecheranno, gli anásyrma si moltiplicheranno prima delle pesanti censure del Concilio di Trento. All’autunno del Medioevo piemontese, verso il 1440 comparirà, in una cappella sperduta nelle campagne di Villafranca Piemonte (To), la straordinaria figura di un audace nudo femminile dipinta da Aimone Duce, una peccatrice (forse la regina Giovanna di Napoli) avviata verso l’inferno con il suo sesso velato di fiamme e ben evidente. Ma la bocca dell’inferno verso cui sta andando, con un giovane amante a seguito, era ormai, fortunatamente, sdentata.

[Arabella Cifani]

«Pas de Deux»
Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)
Le mani
I piedi
Le labbra
La passerina
Le tette
Gli occhi
I membri maschili
I nasi
I sederi
Le orecchie
I denti
I capelli
Le schiene
 

Il nudo femminile dipinto da Aimone Duce nella chiesa di Villafranca Piemonte (To)

La «ferita al costato» di Bona di Lussemburgo

Il tema delle donne persiane visto da Frans Francken il Giovane (particolare)

«Le donne persiane», di Otto Van Veen

La donna di Porta Tosa a Milano

«Sacco e Oro» (1956), di Alberto Burri. Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri

«Double Nude Portrait. The Artist and his Second Wife» (1937), di Sir Stanley Spencer

«Nudo che legge», di Jules Pascin

Stefano Causa, Arabella Cifani, 01 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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