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Redazione GdA
Leggi i suoi articoliVenezia, città di riflessi e labirinti, accoglierà nella primavera del 2026 un artista che fece della solitudine un linguaggio universale. Matthew Wong, il pittore sino-canadese morto prematuramente nel 2019 a soli 35 anni, sarà protagonista di una grande mostra al Palazzo Tiepolo Passi, dal 9 maggio al 1° novembre, in parallelo alla 61ª Biennale d’Arte. Trentacinque opere realizzate tra il 2015 e il 2019 — molte delle quali raramente esposte — offriranno una nuova lettura della sua breve, folgorante parabola artistica. L’esposizione, promossa dalla Matthew Wong Foundation e curata da John Cheim, intende esplorare gli “interni” del pittore: spazi fisici e mentali, domestici e cosmici, dove il colore si fa stato d’animo. «La sua pittura», spiega Cheim, «nasce dal dialogo con le tradizioni moderniste ma ne capovolge il senso. Wong trasforma la stanza, luogo dell’isolamento, in una geografia emotiva, in una soglia fra la malinconia e l’incanto.»
Le tele scelte per Venezia raccontano il viaggio di un artista autodidatta che, in appena quattro anni, riuscì a costruire un linguaggio autonomo, riconoscibilissimo, fatto di pennellate dense, toni saturi, luci crepuscolari e atmosfere sospese tra sogno e veglia. Opere come Night Moods (2018) o Blue Rain condensano il senso di distanza e desiderio che attraversa tutta la sua ricerca: un realismo visionario, dove la solitudine diventa colore e la memoria prende la forma di un giardino, di una finestra accesa, di una figura appena accennata.
Figlio di immigrati di Hong Kong, Wong nacque a Toronto nel 1984 e visse tra il Canada e la Cina. Dopo gli studi in antropologia e fotografia, si avvicinò alla pittura da autodidatta, scoprendo in essa un mezzo di introspezione più che di rappresentazione. La sua prima personale, nel 2018, alla Karma Gallery di New York, rivelò un talento sorprendente, e in breve le sue opere entrarono nelle collezioni del Met, del Guggenheim e del Dallas Museum of Art.
La critica americana lo definì “l’erede contemporaneo di Van Gogh”, per l’intensità psicologica e l’immediatezza del gesto pittorico. Ma dietro quella rapida ascesa si nascondeva una fragilità che Wong stesso non cercò mai di mascherare: la pittura come forma di salvezza, e insieme come testimonianza della sua inquietudine.
Dopo la sua morte, la famiglia fondò nel 2020 la Matthew Wong Foundation, con sede a Edmonton, in Canada, per preservare la sua opera e promuoverne la conoscenza attraverso pubblicazioni, studi e mostre tematiche. L’istituzione ha anche ricostruito lo studio dell’artista, conservando pennelli, pigmenti e tele incompiute come tracce di un processo creativo che era, prima di tutto, una forma di meditazione. Il progetto veneziano si inserisce in questa ricerca: non una retrospettiva commemorativa, ma un laboratorio di interpretazione.
Nel catalogo della mostra, Nancy Spector, già curatrice del Guggenheim, scrive che “le stanze di Matthew Wong non sono luoghi da abitare, ma da attraversare: sono ritratti dello spirito umano, sospesi tra luce e assenza”.
Ed è forse per questo che Venezia, città dove ogni riflesso è un’altra identità, appare il contesto ideale per rivedere la sua opera. Come le calli e i canali che cambiano volto a ogni ora del giorno, anche le tele di Wong mutano con lo sguardo di chi le osserva — luoghi intimi e universali insieme. A sette anni dalla sua scomparsa, la pittura di Matthew Wong non smette di parlare al presente: ci ricorda che ogni colore può essere un’emozione, ogni stanza una mente, ogni silenzio una confessione. In un’epoca di iperconnessione e di isolamento digitale, il suo lavoro torna a interrogare l’interiorità come forma di resistenza. E a Venezia, tra acqua e luce, le sue visioni troveranno una nuova vita — come se il pittore delle notti blu avesse finalmente trovato il suo orizzonte
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