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Redazione GdA
Leggi i suoi articoliC’è un gesto, in apparenza piccolo, che racchiude una delle questioni più profonde della cultura contemporanea: il destino delle opere d’arte sottratte, disperse o dimenticate. Enrico Tosti-Croce, un pensionato cileno di origini italiane, ha deciso di restituire alla Grecia un frammento di marmo che suo padre aveva portato via dall’Acropoli di Atene negli anni Trenta. Non un capolavoro museale, ma una pietra trapezoidale di poco più di un chilo, scolpita con motivi a fiore di loto. Una “reliquia minore” che, tuttavia, custodiva un simbolo enorme: quello del legame, spesso irrisolto, tra memoria e appartenenza.
La storia comincia quasi un secolo fa. Gaetano Tosti-Croce, ufficiale della marina italiana, visitò la Grecia nel periodo tra le due guerre, quando le spedizioni militari si intrecciavano alle curiosità archeologiche. Da quella sosta sull’Acropoli portò con sé un piccolo frammento di marmo, senza sapere forse che proveniva dal tetto di un antico tempio arcaico, l’Hekatompedon, costruito nel VI secolo a.C., ancor prima del Partenone. Quel frammento, innocente ricordo di viaggio, attraversò poi l’oceano: negli anni Cinquanta, emigrando in Cile, Gaetano lo portò con sé, trasformandolo in un semplice oggetto domestico, esposto per decenni nelle case di famiglia come una curiosità, un “pezzo di Grecia” incastonato in una nuova vita.
Quando, novant’anni dopo, Enrico ha sentito alla radio la notizia della richiesta greca di restituzione dei Marmi del Partenone al British Museum, ha avuto un sussulto. «Mi sono detto: io ho un pezzo del Partenone», ha raccontato. Da quella intuizione è nata una decisione etica prima ancora che diplomatica: scrivere all’ambasciata greca a Santiago per restituire ciò che non gli apparteneva. La risposta è stata immediata. Dopo la consegna del frammento, le autorità greche gli hanno confermato che la pietra non proveniva dal Partenone, ma da un tempio ancora più antico, testimone delle origini stesse della civiltà ateniese. Il 4 novembre, ad Atene e a Santiago, il gesto è stato celebrato come un atto di “diplomazia culturale dal basso”: un privato cittadino che restituisce un frammento di storia, senza pressioni, senza clamore. «Quando ho lasciato l’ambasciata – ha raccontato Tosti-Croce – ho provato una sensazione difficile da descrivere. Mi sono sentito bene. Come se avessi fatto la cosa giusta.»
In un’epoca segnata da dispute internazionali sul patrimonio – dai Marmi del Partenone ai bronzi del Benin, dalle maschere africane alle sculture Khmer – questa restituzione minuta assume il valore di un simbolo. L’eco del gesto di un singolo mette in discussione le resistenze delle grandi istituzioni: se un privato può agire in nome della memoria e del rispetto, perché non dovrebbero farlo anche i musei e gli Stati? L’episodio di Tosti-Croce si inserisce in un contesto più ampio di revisione etica e politica del collezionismo europeo. Dopo la storica dichiarazione del Vaticano che nel 2023 ha disconosciuto la “dottrina della scoperta” – l’antico diritto coloniale a impossessarsi dei beni dei popoli non cristiani – molti musei occidentali hanno riaperto il dibattito sul proprio ruolo. Restituire non significa solo restituire un oggetto, ma riconoscere una storia, un trauma, una voce rimossa. Il piccolo frammento di marmo viaggerà ora verso il suo luogo d’origine, tornando al Museo dell’Acropoli di Atene. Lì non sarà forse esposto come un capolavoro, ma come testimonianza di una coscienza collettiva che si risveglia. «Ogni pezzo restituito – ha dichiarato il Ministero della Cultura greco – non è una perdita, ma una vittoria della memoria». E così, nella storia di un pensionato cileno e di un frammento di pietra, si riflette un principio antico quanto l’arte stessa: che la bellezza, per essere compresa, deve prima di tutto essere restituita al suo contesto, umano e storico.
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