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Carla Di Francesco

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La riforma del MiC secondo gli esperti. Carla Di Francesco: «Non era così necessaria, rischiamo la paralisi»

L'ex segretario generale del Ministero analizza il senso e i limiti della riorganizzazione appena approvata: addio alla struttura verticistica a favore di quella orizzontale con quattro Dipartimenti. «La riforma incide pesantemente su un corpo ministeriale che davvero è troppo gracile», spiega

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Arianna Antoniutti

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Carla Di Francesco (Roma 1951), che oggi è la presidente del Conservatorio Frescobaldi di Ferrara e del Fai-Fondo Ambiente Italiano per l’Emilia-Romagna, ha maturato un’esperienza pluridecennale all’interno del Ministero. Già segretario generale del Mibact nel 2017-18, prima era stata soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici di Milano, dopo il ventennale incarico in qualità di architetto nella Soprintendenza di Ravenna a Ferrara. Come direttore regionale in Lombardia e in Emilia-Romagna (2004-15) si era occupata specificamente di tematiche organizzative e di personale, di programmazione, di valorizzazione e di musei. Dal 2018 al 2020 ha diretto la Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività culturali, attiva nell’ambito del Ministero della Cultura (MiC). Persona dunque molto adatta per analizzare i punti salienti del nuovo regolamento di organizzazione che disciplina l’assetto organizzativo del MiC. Partendo dal nodo principale, il passaggio dal modello organizzativo del Segretariato generale al modello organizzativo in quattro Dipartimenti: Dipartimento per l’Amministrazione generale (DiAG); Dipartimento per la Tutela del patrimonio culturale e del paesaggio (DiT); Dipartimento per la Valorizzazione del patrimonio culturale (DiVa); Dipartimento per le Attività culturali (DiAC).

Dottoressa Di Francesco, che cosa pensa della novità dei quattro Dipartimenti?
Negli anni del mio lavoro al Ministero ho avuto modo di sperimentare anche l’articolazione in Dipartimenti, attiva in un breve periodo, fra il 2004 e il 2006, ma subito dopo soppressa e nuovamente sostituita dal Segretariato generale. Quella dipartimentale è una delle tante modalità organizzative possibili, che però, a otto anni dall’ultima modifica radicale dell’organizzazione ministeriale, a mio parere poteva essere evitata. Anche la precedente riorganizzazione è stata difficile da assorbire, sia per quanto concerne l’apparato centrale, sia, e soprattutto, per quello periferico. Questa nuova riforma è un’operazione assai complessa, che va pesantemente a incidere su di un corpo ministeriale davvero troppo gracile. Ritengo, e non sono la sola a dirlo, che la vera rivoluzione organizzativa sarebbe quella di lasciare tutto com’è, ma finalmente dotare gli uffici di personale e risorse sufficienti allo svolgimento dei loro compiti. Questa è in verità l’azione più rivoluzionaria e razionale che si potrebbe fare, di cui il Dicastero ha maggiormente bisogno e che nessuno ha mai fatto. Andando a leggere il regolamento, vediamo che l’organizzazione dipartimentale ha soppresso due Direzioni generali: Educazione e ricerca e Sicurezza del patrimonio che, sia pure create l’una nel 2015 l’altra nel 2019, iniziavano ora a produrre ottimi frutti. La Direzione Sicurezza del patrimonio tra l’altro si è molto impegnata per sviluppare la cultura della prevenzione dai rischi naturali (come terremoti e alluvioni), che costituisce parte integrante e prioritaria della tutela. Il calo di attenzione verso questi temi non favorisce il patrimonio. La soppressione poi dei Segretariati regionali è uno scossone alla periferia. Anche se, a dire la verità, su questo punto non sono in disaccordo, perché le loro funzioni erano già state svuotate dall’ultimo assetto del 2015.

Secondo il Ministero, il nuovo modello organizzativo dipartimentale «renderà la struttura organizzativa più adeguata ai compiti istituzionali». È d’accordo?
Non posso concordare su questo. Nel sistema ancora vigente, con il segretario generale che coordina, in forma ampia e leggera, tutte le strutture ministeriali, c’è una catena di comando più snella. Sicuramente, con i Dipartimenti (come nel 2004 abbiamo avuto modo di sperimentare) si verificheranno conflitti di competenze. Una catena di comando lunga genera sempre difficoltà. C’è da aggiungere però che non abbiamo ancora il quadro completo della riforma, ma solo la prima parte, in quanto mancano ancora i decreti relativi ai compiti degli uffici dirigenziali di seconda fascia. Un punto importante è quello che riguarda i tempi effettivi di attuazione. A ogni riforma, passando le funzioni da una struttura a un’altra, segue una complessa ridistribuzione di compiti e di personale. Pensiamo come esempio concreto alla citata soppressione delle due Direzioni generali, Educazione e ricerca e Sicurezza del patrimonio, o dei Segretariati: il personale dovrà confluire in altre strutture mediante mobilità, operazione che si attua per tutto il Ministero e che richiede tempi non brevi. Anche in ragione di questo, la riforma potrà entrare in funzione effettiva dopo molti mesi, se non anni, come già accadde per la riforma del 2015. Inoltre il momento non è dei più favorevoli. A breve saranno immessi nel Ministero 50 nuovi dirigenti tecnici provenienti dal corso-concorso curato dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione con la Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali e quindi molte strutture centrali e periferiche cambieranno i loro vertici. Tante novità, tutte insieme, avranno un effetto dirompente e l’intero processo sarà molto difficile da gestire. Il rischio è la paralisi delle attività quotidiane degli uffici. Quando si affronta una riforma, si inizia a modificare le strutture a partire dall’alto, ma senza poter considerare a fondo le ricadute di funzionamento e organizzazione delle singole strutture.

In quale diverso modo si sarebbe dovuto attuare la riforma?
Bisognerebbe piuttosto chiedersi: era davvero necessaria una riforma? Piccole modifiche sono certamente sempre possibili. Sono convinta che, in presenza di un determinato assetto, si possa intervenire più agevolmente su singoli comparti e su singole problematiche. Questo, ad esempio, è già stato fatto recentemente per quanto concerne i musei autonomi, il cui numero è stato ampliato. Innegabilmente, un museo autonomo avrà maggiori potenzialità di sviluppo, in quella che potremmo definire una «mini riforma», che non mancherà di dare i suoi frutti. Allo stesso modo, si sarebbe potuto agire sui Segretariati regionali, riassegnandone le competenze in maniera mirata prima di sopprimerli. Anche questa avrebbe potuto essere un’efficace «mini riforma». Torno poi a ribadire che la vera, unica, necessaria riforma, sarebbe dotare gli uffici di personale bene istruito dall’amministrazione. Impostare una formazione costante dei funzionari, a mio parere, è una delle modalità di innovazione meno invasive e assolutamente più produttive.

Un primo nodo critico è il futuro assetto dell’Istituto centrale per la Grafica che, secondo la riforma, dovrebbe afferire alla Direzione generale Biblioteche e istituti culturali. I dipendenti dell’Istituto chiedono invece, per la natura dell’Istituto stesso, di afferire alla Direzione generale Musei o alla Direzione generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio. Qual è la sua opinione?
Trovo che l’appunto mosso dai dipendenti sia assolutamente pertinente. La specificità dell’Istituto, con le sue collezioni di stampe, disegni, matrici incise, rientra con tutta evidenza nel comparto dei musei. Basta visitarlo per rendersene conto. C’è un’altra novità non positiva, ossia la creazione di un Istituto Centrale per la valorizzazione, anche economica, del patrimonio culturale. Le sue finalità sono esplicite: «valorizzazione economica e ottimizzazione della gestione del patrimonio culturale e degli istituti, in modo da favorire l’incremento della redditività e della capacità di automantenimento finanziario di istituti e luoghi della cultura statali». Questo suggerisce che gli istituti autonomi dovranno essere competitivi come un’azienda privata. Mi sembra un orientamento che fa il paio con il Decreto Ministeriale 161/2023, relativo alle tariffe delle immagini e alle concessioni d’uso dei luoghi della cultura. Non solo in materia è ancora in corso un’accesa polemica, ma ho ragione di credere che si arriverà a una più equilibrata modifica. Ma resta il fatto che di base l’idea è che il patrimonio debba rendere. Idea assai opinabile, che mette in ballo il concetto stesso di patrimonio. Non dobbiamo dimenticare che le finalità culturali e sociali di un bene travalicano la sua parte economica. Essa va certamente tenuta in considerazione, ma nel parlare di redditività e di capacità di automantenimento finanziario, mi sembra ci sia una decisa esaltazione del tema. Di certo è una novità, ma di segno negativo.

Leggi anche:
In sintesi il nuovo «assetto organizzativo» del Ministero della Cultura
 

Carla Di Francesco

Arianna Antoniutti, 08 gennaio 2024 | © Riproduzione riservata

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