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Alessandro Agresti
Leggi i suoi articoliQuella che stiamo vivendo in questi giorni non è la sola epidemia che la Città Eterna ha affrontato nella sua storia millenaria: quasi «leggendaria» fu la peste così detta «antonina» dal patronimico dell’imperatore reggente in quegli anni Marco Aurelio o «galenica», dal medico che la studiò e la descrisse, che fu con ogni probabilità morbillo o vaiolo e che tra il 165 e il 180 d.C. decimò un quarto della popolazione europea; anch’essa venne dall’Oriente, importata dall’esercito romano di ritorno dalle campagne militari contro i Parti.
Per non tacere, in età medievale, del fatidico anno 1348, quando il flagello si ripresentò in tutto il suo potere distruttivo, la famigerata «peste nera» proveniente questa volta dal nord della Cina intorno al 1346, diffusasi in Europa tramite Siria, Turchia e poi Grecia per poi scomparire misteriosamente qualche anno dopo, intorno al 1353, dopo aver causato la morte di almeno un terzo della popolazione del Vecchio Continente. In questa occasione mi vorrei però soffermare sull’episodio meglio documentato della storia moderna, l’ultima grande epidemia di peste avvenuta a Roma nel 1656, reggente papa Alessandro VII Chigi.
Questa volta il flagello venne da Ovest, passando dalla Sardegna al Regno di Napoli, dove uccise fino a duemila persone al giorno diffondendosi per una sottovalutazione dei primi focolai a Civitavecchia e a Nettuno: un marinaio partenopeo infatti morì presso l’ospedale del SS. Salvatore al Laterano per «aver praticato a Ripagrande con qualche compatrioto già infetto» permettendo contagi che da Trastevere arrivarono fino a Borgo San Lorenzo. Mi paiono alquanto impressionanti le analogie con quello che stiamo vivendo come se, nonostante il passare dei secoli e le vertiginose innovazioni tecnologiche, l’uomo si trovasse nuovamente inerme di fronte alla natura madre/matrigna.
Il pontefice creò immediatamente una Congregazione della consulta e ordinò non solo la chiusura dei tribunali, dei collegi e, più in generale, dei luoghi di assembramento, ma sospese i servizi assistenziali delle Confraternite e le processioni. Le porte della città vennero chiuse in modo che nessuno potesse uscire diffondendo ulteriormente il morbo nelle campagne limitrofe o entrare creando ulteriori focolai. Case e quartieri contagiati vennero posti in quarantena e vennero organizzati lazzaretti dove vennero portati sia malati sospetti che conclamati.
Anche in quel caso, in una città ben più caotica e disorganizzata di quella odierna, i romani fecero fronte comune, collaborarono gli uni con gli altri, rispettarono le regole e nel 1657 il flagello si poteva dire debellato. La vita riprese e con essa le committenze artistiche di un periodo particolarmente felice per le arti: mi vorrei soffermare su due casi eclatanti di opere scaturite dopo il passaggio della peste. La prima è la chiesa di Santa Maria in Campitelli, capolavoro di Carlo Rainaldi, voluta da papa Alessandro VII in persona che aveva il «mal della pietra» come narrano scherzosamente le carte d’epoca.
Santa Maria in Campitelli venne edificata nelle attuali, maestose, proporzioni proprio a celebrare la miracolosa immagine della Vergine conservata nella chiesetta di Santa Maria in Portico, la quale secondo la credenza popolare avrebbe portato alla scomparsa del morbo. In pittura l’opera più eclatante legata alla «morte nera» si deve al pennello di Nicolas Poussin: «Santa Francesca romana scaccia la peste da Roma», eseguita nel 1657 per volere del cardinale Giulio Rospigliosi (futuro papa Clemente IX).
Legato alla cerchia dei Barberini, ai quali dovette la sua folgorante carriera, uomo dalla cultura vasta e raffinata, abile librettista per drammi d’argomento sacro, appassionato di poesia e teatro, il porporato fu un committente generoso ed esigente coi suoi artisti: il sodalizio con Poussin risaliva in realtà a un ventennio prima quando, sul finire del quarto decennio del Seicento, richiese al francese capolavori quali «La danza della vita» o «I pastori in Arcadia», opere iconograficamente e semanticamente complesse che di riflesso ci fanno comprendere l’eccezionalità di chi le richiese.
Altrettanto singolare nel catalogo di Poussin come, più in generale, in quello della produzione pittorica coeva, il caso della tela con la santa canonizzata nel 1608: qua il dipinto d’argomento sacro si fa anche dipinto di storia, accostando abilmente tematiche differenti, con Francesca che appare al cospetto di una nobildonna (Anna Colonna?) quasi fosse una divinità appena scesa dall’Olimpo. Reca le frecce spezzate, rese inoffensive, con le quali la peste si diffonde: quest’ultima è colta mentre, trascinando con sé un fanciullo e un uomo, fugge sul secondo piano, inseguita da un messo celeste che con tanto di scudo e spada la scaccia mentre una donna, apparentemente salva (esemplata sulla «Santa Cecilia» di Stefano Maderno) è riversa ai piedi dell’apparizione.
Non sappiamo se la tela, segnalata negli inventari romani della nobile casata d’origini toscane, venne mai esposta pubblicamente, se adornò una cappella o semplicemente venne gelosamente custodita nelle stanze del palazzo capitolino: è certamente un’altissima testimonianza dell’ennesima rinascita di Roma dopo un momento di estrema difficoltà, un faro di speranza che dal passato arriva al nostro presente.
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