Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliSiamo segni di luce nella luce, una moltitudine di corpi che attraversano un tempo e uno spazio, dove lasciamo tracce e memorie via via sempre più deboli. Per questo il ritratto è da sempre tra i generi più praticati nella storia dell’arte, «le opere hanno la possibilità di vivere nel tempo e di essere mantenute in vita continuando a parlare a chi anche in futuro avrà la capacità e la voglia di ascoltarle», osserva Falciani, che ha scelto per Vignale il tema del ritratto, con opere nelle quali non si rappresentano tanto le fattezze di un volto, ma piuttosto l’identità, i pensieri e le aspirazioni di singoli individui o di intere comunità. L’arte è uno strumento di pratica civile, è ciò che di noi resterà nel futuro. In questa sezione vi sono Francesco Jodice e Patrick Tuttofuoco, protagonisti stamattina di una seguitissima colazione con gli artisti, moderata da Michele Bertolino, un format proprio di Panorama dove si rompono le barriere tra il pubblico e l’artista, creando dialoghi circolari, in cerca di quella civil conversazione, appunto, alla base della mostra e dell’idea stessa di comunità. Un’idea che in pochi decenni ha mutato e quasi cancellato i propri confini, sfociando in quella che Falciani definisce una molteplicità.
«Per me l’idea della comunità è innanzitutto una questione quasi esoterica, mistica: qual è la nostra disponibilità alla nuova forma di compromissione? Abitiamo in un teatro sociale che è sempre stato modificato, uno dei grandi processi dell’Occidente moderno dagli anni Ottanta in poi ha coinciso con una cultura di neomedioevalizzazione dello spazio culturale (la disintellettualizzazione) e la cancellazione della classe media. Questo ha creato una frattura, afferma Jodice. Abbiamo cancellato una condizione irripetibile e forse anche inattuale, le cose spariscono perché diventano degli strumenti che non performano più», come le chiese sconsacrate, le case abbandonate, i campi incolti, i negozi chiusi, le piazze semi deserte che spesso caratterizzano questi paesaggi. «Tutto il sistema dell’arte dovrebbe capire come creare una nuova colla. Non tanto per portare gli altri a noi, come successo in molte delle ultime biennali, ma per portare noi agli altri», siano essi nel futuro o in territori e ambienti sociali differenti. È questo che Panorama vuole fare.
Succede, per esempio, nel raffinato e caleidoscopico allestimento di «Lo que cantaba la abuela... (Quello che raccontava la nonna...)», realizzato nel 2007 da Susan Pilar (Galleria Continua). Vecchie e sbiadite fotografie in bianco e nero di giovani spose di colore sono allestite su lightbox ad altezza naturale con il retro a specchio. Le immagini si susseguono lungo tutto il corridoio dell’elegante Palazzo Callori, principale sede espositiva, creando un percorso dove le immagini si mescolano con il loro riflesso, fino quasi a evaporare nella luce che filtra dalla grande finestra in fondo. Più o meno a metà del corridoio una grande scatola aperta e poggiata sul pavimento in verticale contiene un antico dipinto di Mirabello Cavalori, che nel 1565 ca ha raffigurato su una tela alta 182 cm un «Ritratto allegorico di giovane» (Carlo Orsi). È un’opera ricca di simboli che alludono all’unione tra due persone, probabilmente due uomini, come sembrano indicare le piccole decorazioni sullo sfondo di Apollo che piange Giacinto o di Achille che si dispera per la morte di Patroclo. Le giovani spose, tra cui il ritratto è custodito, sono invece la nonna, bisnonna, zia e madre dell’artista cubana, che spiega «Invito il pubblico a entrare nella mia casa, nella mia famiglia, nel mio archivio, nella mia storia personale. Ho pensato che, transitando nell’opera, le persone si sarebbero integrate, riflettendosi nella mia famiglia per farne parte».
Una dimensione quasi sacra e trascendente cui alludono anche le due opere di Patrick Tuttofuoco, «Drop the body» del 2021 e «Pink Limen» del 2024, allestite nella piccola chiesa dei Battuti. Una corpo in marmo rosa, acefalo e disteso su una base ferrosa collocata sul pavimento, e la sagoma di un uomo in neon rossi slanciata verso l’alto. «I corpi dei miei lavori raccontano spesso una condizione di orizzontalità, di non veglia, di sonno, di connessione con una dimensione spazio temporale differente: esiste un’importanza della vita e dell’esperienza sensoriale che va ben al di là della sfera materiale, del corpo inteso come oggetto. È il tentativo di approdare in una dimensione spirituale e trascendente, un’urgenza di ricordarci che non siamo soltanto il nostro corpo o l’esperienza materiale delle cose. L’incontro con l’arte prevede proprio questa capacità. L’orizzontalità indica l’essere non presente, performante, sveglio, attivo. Il sonno e la meditazione diventano luoghi d’azione e di grande potere», spiega l’artista.
Sono questioni ricorrenti su cui l’uomo si interroga da sempre. Ciò che lega il volto severo e austero di Ulpia Marciana, sorella dell’imperatore Traiano scolpita con tratti severi e austeri in un marmo del II secolo (Alessandra Di Castro), ai pensieri dei nobili membri della famiglia dei Serra di Cassano celebrati nel secondo Settecento con sontuosi ritratti di Carlo Amalfi (Carlo Virgilio & C.), quasi un antico album di famiglia nel quale si intravede l’inizio del lento declino della nobiltà, che in quegli anni vive il passaggio dall’Ancièn Regime all’epoca moderna, come i conti Calliori (cui si deve il nome del palazzo), antichi feudatari di Vignale che ne mantennero il possesso dal Cinque all’Ottocento. I tempi cambiano e con essi mutano architetture e paesaggi, anche quello agricolo, che è sempre l’espressione di un’identità, il ritratto di una comunità, «la proiezione dei desideri della gente, un’architettura sovvertita, non generata dall’alto ma prodotta da una polluzione della comunità», racconta Jodice, la cui opera esposta, nel Teatro di Palazzo Callori, ha al suo centro proprio un paesaggio, quello del Lago Aral in Kazakhistan. Si intitola «Aral Citytellers» del 2008-10 (Umberto Di Marino), è composta da un video più una serie di fotografie e ripercorre la vicenda del Lago Aral alla fine degli anni Quaranta, quando l’Unione Sovietica devia due affluenti del lago per incentivare la coltivazione del cotone e crea sull’isola al centro del lago una base per sperimentare armi batteriologiche, poi dismessa e abbandonata. In quest’area arida e prosciugata, oggi sopravvive una piccola comunità di ex pescatori, una sorta di monumento archeologico a un’umanità nomade che si illude di resistere, ma che non esiste più, come lo spazio intorno a essa, mutato e fragile.
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