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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliLa curva per Sophie Taeuber-Arp non è stata solo «forma», ma strumento per calibrare la distanza tra l’opera e il mondo. Perché nel suo lavoro, curve e cerchi funzionano come «unità di orientamento visivo» opposte alla rigidità della griglia modernista. Da qui nasce uno dei paradossi centrali della sua ricerca: più il linguaggio si fa organico, più l’artista ricorre a maschere, sagome – come i curvilinee – e strumenti di precisione per tracciare il disegno. Un’apparente spontaneità delle forme che è, in realtà, sostenuta da un controllo rigoroso, quasi tecnico. Ed è attorno a questo paradosso che si articola «Sophie Taeuber-Arp. La règle des courbes» (La regola delle curve), mostra che Hauser & Wirth Paris presenta dal 17 gennaio al 7 marzo 2026. Curata da Briony Fer, l’esposizione rappresenta la prima personale dedicata all’artista negli spazi della galleria e riunisce oltre 45 opere, realizzate tra il 1916 e il 1942.
Provenienti dalla Fondazione Arp tedesca (Stiftung Hans Arp und Sophie-Taeuber-Arp e.V.) e da importanti collezioni pubbliche e private, le opere in mostra comprendono dipinti, disegni, gouache, rilievi in legno e un’iconica testa dada. Il percorso mette in evidenza il vocabolario formale della curva che Taeuber-Arp utilizza per dilatare, piegare e deformare il linguaggio dell’astrazione geometrica, senza mai rinunciare alla struttura. Questa posizione è frutto di un percorso preciso. Sophie nasce nel 1889 a Davos-Platz e si forma in un contesto segnato dalle arti applicate e dall’insegnamento tecnico. Gli studi a San Gallo e poi a Monaco, negli atelier diretti da Wilhelm von Debschitz, la mettono in contatto con una visione dell’arte che non separa progettazione, artigianato e sperimentazione formale. È un dato strutturale della sua ricerca: la padronanza del mezzo precede l’invenzione della «forma».
Quando nel 1914 si trasferisce a Zurigo, Taeuber-Arp lavora tra pittura, tessile e oggetti artigianali. Entra nello Schweizerische Werkbund e, poco dopo, incontra Jean Arp. Il loro sodalizio nasce da un rifiuto condiviso delle forme artistiche convenzionali e dei metodi didattici tradizionali. Collage, tessuti e sculture in legno diventano terreno comune di sperimentazione. In questi anni Sophie aderisce al Dada, ne firma il Manifesto, danza alle soirées dadaiste, progetta maschere, marionette e scenografie. Il corpo entra nella pratica artistica come elemento strutturante, e non come «semplice» performance.
Esattamente ciò che Rudolf Laban analizza nella sua teoria del movimento: non un «movimento decorativo», ma una qualità dinamica che struttura lo spazio. Laban, infatti, insegnò alla stessa Taeuber-Arp che il movimento non era solo «fatto», azione, ma misura, ritmo, relazione. In questo senso, le superfici curve nelle opere che Sophie realizzerà non sono «solo» segni geometrici, ma rappresentazione di un «corpo visivo»
Negli anni Venti e Trenta questa posizione si estende a tutti i campi della sua attività. Taeuber-Arp lavora tra Parigi, Strasburgo e Clamart, realizzando progetti di architettura d’interni, vetrate e pitture murali. Il Café de l’Aubette a Strasburgo, progettato con Jean Arp e Theo van Doesburg, è uno dei punti più alti di questa integrazione tra arte e vita. Qui i principi dell’astrazione geometrica vengono applicati allo spazio architettonico, senza gerarchie tra pittura, design e funzione. Negli stessi anni partecipa ai gruppi Cercle et Carré e Abstraction-Création, contribuendo a ridefinire l’astrazione come linguaggio aperto e interdisciplinare. Le sue composizioni introducono il movimento in un ambito fino ad allora dominato dalla staticità verticale-orizzontale. La struttura resta, ma si anima.
Un esempio chiave di questo approccio è la serie Echelonnements avviata nel 1934. Qui bordi curvi e linee rette convivono, generando composizioni costruite per accumulo e slittamento. In «Echelonnement», ad esempio, le forme bianche sembrano ritagliate dal fondo blu. Non emergono come presenze positive, ma come campi negativi. La loro configurazione richiama i curvilinee utilizzate in ambito geometrico e architettonico – strumenti di misura, più che forme espressive. Ma negli anni Trenta il linguaggio di Taeuber-Arp diventa sempre più organico. Le forme curve, come nella serie Coquille, suggeriscono un interesse per strutture naturali. Eppure, proprio in questa fase, l’uso di sagome e modelli tecnici si intensifica. È il paradosso che attraversa tutta la sua ricerca: più la forma si avvicina al vivente, più è governata da strumenti di precisione.
Sophie Taeuber-Arp, «Composition à cercles-à-bras angulaires en lignes et plans», 1930. Credits Jon Etter. Courtesy Hauser & Wirth © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth
Se infatti la forma curva è «esperienza corporea», allora il tempo dentro l’opera non è una sequenza meccanica ma una «durata vissuta». Qui si può leggere un’eco del filosofo Henri Bergson che rifiuta il tempo come successione di istanti misurabili e lo propone come flusso continuo e sensibile. Allo stesso modo, nelle composizioni di Taeuber-Arp il ritmo non si arresta sulla superficie, ma attraversa forme, spazi e relazioni visive. Questa tensione tra durata vissuta e controllo tecnico non si risolve, ma si radicalizza nelle opere finali. In mostra figurano anche alcune delle ultime opere realizzate nel 1942, generalmente definite Costruzioni geometriche – disegni a inchiostro nero su carta, eseguiti con righello e compasso. Qui Taeuber-Arp interviene dipingendo di bianco alcune sezioni, oltre a tagliare e ruotare parti del foglio. I tagli generano assi orizzontali e diagonali, trasformando frammenti statici in movimenti circolari. Le forme restano semplici, ma i processi di stratificazione le rendono instabili e aperte.
È anche in questo passaggio che si chiarisce la sua distanza da altri modelli di astrazione coevi. Se Piet Mondrian sviluppa un’astrazione rigorosamente ortogonale, fondata su griglie, linee rette e colori primari, orientata a un’idea di equilibrio universale e statico, Taeuber-Arp introduce una variabile diversa. La linea retta, per lei, non basta. La curva diventa il «luogo» in cui il rigore si apre al movimento, senza dissolversi. Il marito Jans Arp, al contrario, affida spesso la composizione al caso. Le sue forme biomorfiche nascono da procedimenti aleatori, ispirati alla natura e all’imprevedibilità (anche se molte volte è pressoché improbabile che le composizioni siano così geometricamente bilanciate se affidate completamente al «caso»). La sua è quindi un’astrazione vitale, fluida, ma, in gran parte, non controllata. Taeuber-Arp non segue neppure questa strada. Il suo lavoro non rinuncia mai alla costruzione, perché la forma non «accade». È tracciata, misurata, calibrata.
A differenza dell’astrazione ortogonale di Mondrian e del biomorfismo «casuale» di Hans Arp, Sophie costruisce un’astrazione ritmica, dinamica e incarnata. La curva introduce movimento ed equilibrio, ma resta sottoposta a una logica formale precisa. È in questo senso che il curatore Briony Fer parla di «regola delle curve», un principio strutturante che governa l’opera senza irrigidirla.
La ricerca di Taeuber-Arp deve molto al clima intellettuale della modernità, dove estetica e tecnica si sono intrecciate. Se Kandinsky, infatti, vedeva nell’astrazione non «mera forma», ma vibrazione interiore, Sophie intendeva il ritmo come generato dal corpo, dai materiali, dagli strumenti di disegno. Non spiritualità intangibile, ma esperienza sensoriale e tecnica insieme. Un altro riferimento – più in chiave interpretativa – è quello con Walter Benjamin che nel testo «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica» definisce come arte e tecnologia smettano di essere mondi separati. Ma Taeuber-Arp non ha mai vissuto questa dicotomia: ha unito pittura, tessuto, design architettonico e danza sin dall'inizio della sua ricerca. La tecnica non è stato ostacolo per la poesia, né la «forma pura» per l’astrazione neutra. Perché la sua arte è sempre stata tanto «corpo» quando «tecnologia» vissuta.
Sophie morirà a Zurigo nel gennaio del 1943, per un avvelenamento accidentale da ossido di carbonio. Riletta oggi, la sua opera appare come un punto di snodo. Da Mondrian eredita il rigore. Da Hans Arp il senso di vitalità. Ma la sua «regola delle curve» supera entrambe le posizioni. Non oppone disciplina e libertà, ma le mette in tensione. Ridefinisce l’astrazione come esperienza sensoriale, corporea e temporale, capace di attraversare pittura, tessile, design e arti performative senza gerarchie.
Sophie Taeuber-Arp, «Motif abstrait. Composition verticale-horizontale», 1925. Credits Jon Etter. Courtesy Hauser & Wirth © Stiftung Arp e.V., Berlin/Rolandswerth
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