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Nicoletta Biglietti
Leggi i suoi articoliMatisse sosteneva fosse inutile copiare gli oggetti di una natura morta. Conta trasmettere le sensazioni che evocano e le relazioni tra gli elementi che la formano, diceva. Perché l’arte non è riproduzione, ma espressione di ciò che si percepisce dall’insieme. Stesso principio che attraversa «Masters of Modernism From Gauguin to Warhol», la mostra che Acquavella presenta a Palm Beach fino al 2 febbraio 2026, riunendo capolavori post-impressionisti, moderni e del dopoguerra. Le opere di Pierre Bonnard, Georges Braque, Paul Cézanne, Jean Dubuffet, Paul Gauguin, Alberto Giacometti, Fernand Léger, Brice Marden, Henri Matisse, Joan Miró, Édouard Vuillard, Andy Warhol e Zao Wou-Ki ripercorrono l’evoluzione del modernismo -dall’abbandono del naturalismo accademico alle astrazioni del dopoguerra- mostrando come ciascun artista abbia ridefinito forma, colore e spazio.
I post‑impressionisti, come Cézanne e Gauguin, anticipano la modernità liberando colore e forma dalla rappresentazione naturalistica. Ne derivano movimenti come il cubismo, che Braque, insieme a Picasso, sviluppa scomponendo lo spazio in piani geometrici e prospettive nuove. Matisse e Miró elaborano un linguaggio cromatico ed espressivo che attraversa fauvismo e astrazione, mentre Léger e Dubuffet sperimentano materiali e sintassi visive. Giacometti indaga la figura umana con intensità esistenziale. Warhol trasforma immagini di massa in icone pop, e Marden e Zao Wou-Ki esplorano astrazioni minimaliste e liriche. Tutti rappresentano momenti chiave di sperimentazione e innovazione, nell’arte moderna che rifiuta l’imitazione e cerca nuovi modi di vedere e pensare l’opera.
In questo contesto, ad esempio, la sensibilità di Matisse emerge molto chiaramente negli anni Quaranta. Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, lascia Nizza minacciata dai bombardamenti e si rifugia a Villa Le Rêve, alla periferia di Vence, dove lavora fino al 1948. Come negli studi degli anni ’20, trasforma lo spazio in un’oasi di luce e colore: tele vibranti, piante rigogliose, tessuti illuminati dalla luce del Mediterraneo. Questa energia si riflette nelle sue nature morte di quel periodo. In «Vase d’anémones», un vaso di porcellana, una boccetta d’inchiostro e un trio di frutti maturi si adagiano su una tovaglia dorata che sembra fondersi con lo spazio circostante. Gli anemoni, con steli contorti, si aprono verso l’esterno. L’interno del vaso resta non dipinto. Così come lo spazio attorno ai fiori, amplificando luminosità e forma. Le linee degli schizzi iniziali sono visibili, conferendo immediatezza. Alcuni oggetti sembrano librarsi nel vuoto viola della stanza, creando una sospensione quasi magica. L’opera del 1946 testimonia l’ultimo capitolo della carriera pittorica di Matisse e celebra la bellezza del mondo circostante.
George Braque, «Bouteille et verre standard», 1913.
Questo stesso impulso, sebbene espresso in modi diversi, si ritrova alla fine dell’Ottocento in Paul Gauguin, che abbandona l’Impressionismo per cercare uno stile «selvaggio». Si ritira a Pont-Aven e poi a Le Pouldu, in Bretagna, dove dipinge «Frutta su un tavolo o Natura morta con un cagnolino» nel 1889. Qui frutti esotici e locali si distribuiscono su una tovaglia bianca, e Gauguin privilegia sentimento e armonia, più che rappresentazione realistica. L’influenza di Cézanne è evidente – infatti uno dei suoi quadri più preziosi, acquistato nel 1880, accompagna Gauguin in Bretagna e ispira profondità e composizione – aspetti che «prepareranno» la strada al Cubismo di Georges Braque.
Nel 1913, è infatti Braque a realizzare «Bouteille et verre standard», carboncino e collage su carta, sperimentando, il Cubismo sintetico. Bottiglia e bicchiere si scompongono in forme semplificate, dialogando con ritagli di carta. L’opera supera la prospettiva tradizionale, sia trasformando gli oggetti quotidiani in composizioni autonome, sia ridefinendo lo spazio visivo. Non si tratta più di imitare la realtà, ma di ripensarne struttura e percezione.
Jean Dubuffet, con «La chèvre égarée» del 1953, propone un approccio parallelo: figure primordiali e segni stilizzati diventano oggetti da osservare e interpretare. L’opera, concettualmente vicina alle nature morte, assegna a ogni forma un ruolo preciso. Equilibrio, ritmo e significato si costruiscono senza aderire al realismo. Joan Miró, nel 1971, realizza poi un scultura in bronzo che trasforma il disegno in forma concreta. È «Personnage dans la nuit». Qui figure organiche popolano uno spazio sospeso tra reale e immaginario. Proprio come in una «natura morta» (concettualmente), ogni elemento è scelto, armonizzato, e invita lo spettatore alla contemplazione e alla scoperta. Nel 1964, poi, Andy Warhol, con il «Self-Portrait» trasforma se stesso in oggetto artistico. Basato su una fototessera, l’autoritratto riflette la serialità della Pop Art e la manipolazione dell’immagine. La ripetizione e la stilizzazione evocano le composizioni degli oggetti nelle nature morte, con il volto dell’artista come soggetto da osservare, interpretare e contemplare. Perché Warhol non copia: interpreta, organizza, trasforma in esperienza visiva e concettuale. E la mostra a Palm Beach mette in luce questo approccio: da Gauguin a Warhol, le opere invitano a osservare forme, colori e composizioni, più che a cercare una somiglianza con la realtà. Come sottolineava Matisse, infatti, non conta copiare gli oggetti, ma ciò che l’osservatore percepisce dalle loro relazioni.
Andy Warhol, «Self-Portrait», 1964. © 2026 The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc./Concesso in licenza da Artists Rights Society (ARS), New York
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