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<!-- p.p1 {margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; text-align: justify; line-height: 11.0px; font: 8.5px 'Swift Neue LT Pro'} span.s1 {font: 8.5px 'Franklin Gothic Std Condensed'; color: #414141} span.s2 {font-kerning: none} span.s3 {font: 8.5px Helvetica} span.s4 {font: 8.5px 'Franklin Gothic Std Condensed'} --> I Kabakov con la regia di Robert Storr
Nell’ottobre 2017 la Tate Modern di Londra dedicherà una grande retrospettiva a Ilya ed Emilia Kabakov. Nativi entrambi di Dnepropetrovsk in Russia (nel 1933 lui, nel 1945 lei), incontrandosi nel 1988 a New York, dove si erano rifugiati, in fuga dal regime sovietico, i due hanno creato una coppia artistica (e di affetti) che li pone fra i massimi protagonisti dell’arte del nostro tempo.
Lo Spazio -1. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, parte del circuito museale del Masi di Lugano, dal 18 settembre all’8 gennaio anticipa l’appuntamento londinese con una mostra, «Ilya & Emilia Kabakov. The Kabakovs and the Avant-Gardes», in cui sette importanti lavori della coppia dialogano con una trentina di opere delle avanguardie europee del primo Novecento. Si tratta di avanguardie russe, con lavori tra gli altri di Malevic, Kandinskij e Rodčenko; italiane, con Boccioni, Balla, Severini; francesi, con Léger e tedesche, con Schwitters della collezione «storica» degli Olgiati, esposte in un allestimento di segno suprematista progettato da Kabakov. In catalogo la mostra è commentata da Robert Storr, già curatore del MoMA di New York e amico dei due artisti.
Robert Storr, quando incontrò per la prima volta i Kabakov?
Ho conosciuto prima il loro lavoro, nei primi anni Novanta, nella Ronald Feldman Gallery. Subito li invitai a partecipare a due mostre che stavo realizzando: «The Devil on the Stairs» per l’Institute for Contemporary Art di Filadelfia e «DisLocations», la mia prima mostra da curatore al MoMA. Un paio d’anni dopo promossi l’acquisizione, da parte del museo, dell’opera «The Man who Flew into his Painting», uno degli elementi dell’installazione vista da Feldman.
Che cosa la colpì del loro lavoro?
Molte cose. Non va dimenticato che il mio primo contatto con loro ebbe luogo solo un paio d’anni dopo la fine dell’Unione Sovietica. Le installazioni dei Kabakov apparivano come «capsule del tempo» e al tempo stesso come una critica fortissima a quel sogno utopico e alla misera realtà di quel Paese. L’idea di Ilya di «installazione totale» (di cui l’osservatore diventa un protagonista), capace di ricreare un’intera società dai detriti di quell’utopia caduta, esercitava una forte attrazione su di me, al pari della combinazione tra pathos e ironia: il suo «Concettualismo moscovita» era così diverso dai dogmi antiletterari del formalismo americano… Le opere di Ilya ed Emilia mi aprirono letteralmente gli occhi e l’immaginazione. E continuano a farlo!
Nella mostra di Lugano sette loro lavori sono esposti con le opere delle avanguardie storiche europee della collezione Olgiati. Quale relazione a suo parere hanno contratto i Kabakov con quei linguaggi artistici?
Come dicevo, nell’opera dei Kabakov incombono pesantemente le speranze fallite dell’utopismo del primo Novecento e si colgono i sentimenti di delusione che le seguirono. Appartengo a una generazione di occidentali che tendeva a idealizzare la Rivoluzione russa, a dispetto di ciò che si sapeva di certi suoi crimini. Ciò che però ignoravano erano le ricadute sul quotidiano. Le installazioni dei Kabakov sono un viaggio nel teatro del dolore e della perdita, della sconfitta, sommato però a magici sguardi sull’incrollabile capacità dello spirito umano di affrontare le avversità.
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