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Non toccate la casta dei custodi

L’ex assessore Sgarlata spiega perché il «distacco» dal Ministero è dannoso per il patrimonio siciliano

Stefano Miliani

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In una regione così complessa come la Sicilia, da neoassessore ai Beni culturali e all’Identità siciliana e all’Ambiente Mariarita Sgarlata il primo giorno trovò sulla scrivania una lettera che la esortava a «eradicare gli artropodi» dall’area archeologica di Tindari (Me). Tradotto: organizzare «un piano di lotta» contro le zecche. Docente di Archeologia cristiana e medievale a Catania, classe 1962, lì per lì ci rise su. Oggi rievoca ironicamente quel messaggio nel libro con cui ricostruisce, con molta amarezza, il suo mandato nel Governo regionale di Rosario Crocetta: L’eradicazione degli artropodi. La politica culturale in Sicilia (EdiPuglia, 310 pp., 16 euro). L’archeologa non è rimasta a lungo dietro quel tavolo: dal 3 aprile 2013 al 14 aprile 2014 per la Cultura, fino al 15 settembre 2014 per l’Ambiente. 

Professoressa Sgarlata, lei sostiene che la società civile promuove cambiamenti benefici, la politica li soffoca. Nel libro dimostra invece che questa separazione non esiste: per esempio quando denuncia la battaglia persa contro la «casta dei custodi» per spostarli dove servono, o quando riferisce di «agronomi, architetti, geologi, geometri e ingegneri» schierati contro «le norme di salvaguardia del Piano paesaggistico di Agrigento». 
La separazione esiste eccome: da una parte le caste a difesa dei privilegi acquisiti e gli interessi personali; dall’altra i cittadini che hanno a cuore il bene comune. Considero la battaglia per riorganizzare i servizi di custodia nei siti solo interrotta dagli assessori successivi fedeli al primo dei dieci comandamenti per sopravvivere alla Regione Siciliana: non toccare la casta dei 1.545 custodi. La lentezza dei lavori dell’Osservatorio Regionale per la Qualità del Paesaggio è una manna per chi non vuole tutelare il paesaggio. Accelerare la pianificazione paesaggistica non è un atto senza conseguenze. 

Citando il padre costituente Concetto Marchesi, siciliano, contesta l’autonomia della Regione sui beni culturali dallo Stato e annota: «Abbiamo svenduto il nostro paesaggio».
Della «specialità» siciliana in materia di beni culturali farei volentieri a meno. Sul sito del Mibact nell’elenco di aree e musei italiani manca la Sicilia. Un’Italia monca, quindi; bisognerà integrare i dati italiani e siciliani e, essendo comunque una Nazione con un patrimonio da tutelare unitariamente, il messaggio è questo: «Avete voluto l’autonomia? Adesso sono fatti vostri». Questo distacco ha accentuato l’ingerenza della politica sulla gestione dei beni culturali più che nel resto del Paese, a parte il ritardo nell’uso dei fondi Ue 2007-13, con solo il 21% (10-11 milioni circa) della spesa possibile. 

Come mai non ha adottato la «Carta del rischio» dei monumenti? 
In realtà, su mia indicazione, il dirigente Guido Meli stava cercando di riattivare il server che gestiva la «Carta del rischio», realizzata dal Centro per il Restauro. Le carte del rischio, per monumenti e dissesto idrogeologico, sono strumenti poco amati dalla politica, che preferisce farne a meno per poter autorizzare, ad esempio, che 30 milioni destinati dall’Ue al dissesto idrogeologico vengano stornati per gli stipendi dei forestali. 

Ma lei da assessore non poteva tirar fuori la «Carta del rischio»?
Ho cercato di tirarla fuori ma l’insuccesso dei servizi informatici di Sicilia e Servizi e la mia uscita di scena hanno deciso diversamente. Ho recuperato fondi per il capitolo di bilancio 776016 (conservazione e restauro dei monumenti). Lo stesso è accaduto con i 55 milioni di altri fondi comunitari come i Poin.

La Sicilia ha un Consiglio dei beni culturali omologo a quello del ministero: perché non ha usato il loro parere?
La composizione elefantiaca del Consiglio regionale dei Beni culturali e ambientali (53 persone), non più rinnovato nel 2009 dal governo Lombardo (cfr. articolo a p. 8), rendeva difficile recuperarne le funzioni; in assenza, avevo proposto che fosse la Giunta regionale a farsi carico di alcuni pareri. La mia proposta di modifica è confluita nell’art. 61 della Finanziaria 2015: da 53 a 15. Sono passati quasi due anni ma le nomine non appaiono all’orizzonte.

Sui parchi archeologici il suo racconto dà la sensazione di un lavoro incompiuto. 
Più che incompiuto, non proseguito dai miei successori. Recuperare la legge del 2000 sul sistema dei parchi archeologici siciliani è stata una grande esperienza, dopo 13 anni di disinteresse generale. La legge prevede due step: il primo definisce il perimetro del parco e si conclude con il decreto di perimetrazione, in «Gazzetta Ufficiale», come è stato fatto per i parchi di Segesta, Solunto, Monte Iato, Valle dell’Aci, Catania, Lentini e Siracusa. Con questi primi decreti, che alcuni tendono a delegittimare, scattano le norme di salvaguardia entro i 200 metri dal perimetro, impedendo le concessioni edilizie. Per il secondo step, il decreto di istituzione, come per Agrigento, Naxos, Himera e Selinunte, bisogna acquisire il parere del Consiglio regionale, un regolamento e un consiglio di amministrazione. Credo che il ritardo della Regione coincida con l’interesse a mantenere gli incassi dei parchi all’interno del bilancio regionale ed evitare che con il secondo decreto diventino autonomi finanziariamente.
 

Stefano Miliani, 13 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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