Carlo Maria Mariani nel suo studio di Roma mentre dipinge «La costellazione del Leone», 1980-1981

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Carlo Maria Mariani nel suo studio di Roma mentre dipinge «La costellazione del Leone», 1980-1981

Mariani con gli antichi per maturare una lingua nuova

La scomparsa di un pittore che non ha rinnegato le radici storiche, la necessità di un magistero tecnico e il mestere dell’arte

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Flaminio Gualdoni

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Ricordo di aver visto il mio primo quadro di Carlo Maria Mariani, in realtà un grande disegno, a casa di Gian Piero Bona, vecchio sofisticatissimo scrittore che ho frequentato ai miei esordi. Ricordo che, non potendo pensare allora alla pittura dell’Anacronismo, che non era ancora stata inventata, lo collegai piuttosto a un Paolini più apertamente classicista, a un artista di oggi innamorato convintamente delle doti di Hayez, a un neoclassico non ortopedico con un frisson che lo designava nel territorio della modernità.

D’altronde la vicenda di Mariani era anomala, avrei subito appreso. Egli veniva dai ponteggi della pittura murale, dunque da una storia che era anche quella di un mestiere dell’arte non solo amato, ma trasformato in materiale problematico che era l’idea di storia dell’arte, di tutta la storia dell’arte: d’altronde persino Kounellis in età matura è arrivato a sostenere che «siamo partiti da un’epoca molto antica e non ci sono mai stati tradimenti». Mariani si è dato alla pittura dunque non cercando il proprio posto nella catena delle catalogazioni cronistiche, ma tentando di riallacciare l’arte di oggi alle sue radici storiche meno scontate: riuscendoci.

Poi, vabbè, c’è stata la ventata dell’Anacronismo e della Pittura colta, e a Mariani è toccato anche essere proclamato caposcuola. Ma non è la sua storia primaria. Egli ha piuttosto smontato e rimontato daccapo i materiali del classicismo auscultandoli nel profondo, mai smentendo la necessità di un magistero tecnico, mai mettendo in dubbio il primato del disegno, ed è approdato a una dimensione del fare che apparteneva solo a lui, che nutriva le proprie iconografie d’una sorta di inciampo surreale, ma che poteva dire con Canova «anch’io mi vanto di esser adoratore dell’antico, ma non idolatra di tutte le cose antiche».

Quando nel 1981 decise di realizzare il suo d’après di Mengs che rifà Raffaello, un nuovo «Parnaso» intitolato «Costellazione del Leone», vi ritrasse Gian Enzo Sperone, Bonito Oliva, De Dominicis, Chia e Clemente, ed espose l’opera proprio nella galleria di Sperone. E giusto a Mengs si pensa ricordando quanto anche Mariani abbia seguito la lezione di Raffaello, Correggio e Tiziano («da Raffaello il gusto dell’espressione o della significazione; da Correggio il gusto del dilettevole o dell’armonia; da Tiziano il gusto della verità o del colore»), a fianco degli antichi, per maturare la sua lingua, che era una lingua nuova.

Appartato nell’arte, Mariani anche nella vita si teneva in disparte: che cosa facesse a New York, dove ha vissuto i suoi ultimi anni, non mi è ben chiaro, ma sono certo che là, più che nella Roma assediata dalla sua storicità, poteva verificare che la sua non era solo pittura «passatista», come un tempo usava dire, ma un’altra forma possibile, critica, ispida e felice di essere difficile, della modernità. Alla fine, se non ha convinto tutti i riottosi che non lo ammettevano nella cerchia di ciò che è up to date, si è guadagnato un profondo rispetto, che è mercanzia ancor più rara.

D’altronde Mariani era ben consapevole di un altro detto canoviano: «Bada, che come colui che nella società degli uomini affetta la grazia, e non l’ha, sgraziato addiviene, così l’artista, che troppo studia la grazia, invece di piacere, ti annoja. Tienti nella giusta misura».
Quanto alla lezione di Mengs, basti ricordare che sempre egli raccomandava di lavorare «col senno e con la mano»: in questo Mariani l’ha seguito, soprattutto mettendo molto senno nelle sue opere.

Carlo Maria Mariani nel suo studio di Roma mentre dipinge «La costellazione del Leone», 1980-1981

Flaminio Gualdoni, 26 novembre 2021 | © Riproduzione riservata

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