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Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliLo sapeva bene, Ambroise Vollard, inventore del termine «peintres-graveurs», che secondo l’etimologia «illustrare» significa allo stesso tempo rendere chiaro e rendere splendido, ovvero aiutare la comprensione e insieme abbellire. Le illustrazioni sono connaturate fin dalla nascita alla storia del libro, e solo nell’età moderna le ragioni dell’economia e della sociologia hanno fatto prevalere i libri «di parole». Capostipiti furono i libelli della «bibliothèque bleue», antenati seicenteschi dei nostri tascabili, che Nicolas Oudot inventa a Troyes, in Francia. Ma quelli erano libri «poveri» e si rivolgevano a una clientela tutta nuova per i libri, venduti dai «colporteur» che giravano con le loro cassette espositori appese al collo per mercati e sagre. Prima di Oudot, e anche dopo, i libri sono sempre stati invece una faccenda di ricchi e potenti, e le illustrazioni devono ornare non solo le pagine, ma riverberarsi sui loro proprietari, papi, regnanti e nobili che spesso non sono neppure così avvezzi alla lettura ma che sanno bene come funziona la politica di ornamentazione della loro rappresentazione pubblica. Proprio nel Seicento, più esattamente nel 1639, Richelieu fonda al Louvre l’Imprimerie royale (poi divenuta Imprimerie nationale e tuttora attiva), diretta dallo stampatore di fiducia Sébastien Cramoisy, con lo scopo di «moltiplicare le belle pubblicazioni utili alla gloria del re», e impone il concetto di «beau livre», ovvero un libro dotato di qualità estetiche particolari.
Dapprima un libro è un oggetto unico: manoscritto, costosissimo, esclusivo. Illustrarlo è, a tutti gli effetti un’arte, e neppure «minore»: Jean Pucelle, i fratelli Limbourg, Belbello da Pavia, Gerolamo da Cremona, Francesco e Girolamo dai Libri, Taddeo Crivelli, Francesco Antonio del Chierico, i milanesi De Predis, su su fino a Giulio Clovio fanno, sino al Cinquecento, della miniatura un’arte a tutti gli effetti «maggiore». Tra coloro che trovano normale darsi alla miniatura ci sono anche autori come Simone Martini, Giovannino de’ Grassi, Jean Fouquet, Gerard David, Liberale da Verona, Beato Angelico, Sandro Botticelli...
Ma arriva Gutenberg, e tutto l’orizzonte cambia. Il libro non è più un unicum, inizia a essere moltiplicabile, e la xilografia si affianca alla miniatura sino a sostituirla, mentre la carta, giunta in Europa dal 1100, soppianta la pergamena animale sino ad allora prediletta. Xilografano immagini e capilettera Albrecht Dürer e Urs Graf, Hans Baldung Grien e Hans Holbein, e specialisti come Michael Wohlgemuth e Erhard Reuwich. In Italia, per le 172 xilografie anonime dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, pubblicata da Aldo Manuzio nel 1499, si sono ipotizzati addirittura nomi come quelli di Giovanni Bellini e Andrea Mantegna. La calcografia, tecnica ancor più raffinata di moltiplicazione delle immagini, introdotta secondo Giorgio Vasari a metà del Quattrocento da Maso Finiguerra e resa illustre da Martin Schongauer in Germania, si afferma dal Cinquecento: molti xilografi passano all’incisione, come Dürer e Lucas van Leyden. Nel Seicento nasce l’usanza di commissionare a grandi maestri tavole fuori testo da inserire nel libro e soprattutto quella delle antiporte, che si sostituiscono al frontespizio figurato sino ad allora in uso. In queste prove si cimentano autori come Pieter Paul Rubens, Philippe de Champaigne, Claude Vignon, Nicolas Poussin, Charles Le Brun. Nel secolo dopo eccellono nell’illustrazione la scuola francese di Hubert-François Bourguignon detto Gravelot, Charles Eisen, Jean-Michel Moreau, Clément-Pierre Marillier, Jean-Baptiste Oudry, e quella inglese con John Flaxman e William Hogarth, illustratore di Laurence Sterne. Le incisioni inoltre servono all’arte, diffondendone gli esempi illustri prima della fotografia. La passione collezionistica per le stampe è tale che l’abate Michel de Marolles, storico e traduttore, giunge a possederne 123mila: acquisite da Colbert per Luigi XIV nel 1667, esse sono il nucleo da cui nascerà il Cabinet des Estampes parigino.

Pablo Picasso, «Ritratto di Ambroise Vollard», 1909-10
Nel Settecento e Ottocento la stampa a colori e la litografia rendono l’illustrazione ancor più protagonista del libro «cum figuris», coinvolgendo artisti come William Turner, che nel 1818 dà ad esempio immagini a A Picturesque Tour of Italy di James Hakewill, episodio importante della moda letteraria del Grand Tour, e come Eugène Delacroix, che si dedica a Shakespeare e al Faust di Goethe. In questo momento nascono figure professionali il cui genio è riconosciuto a pieno titolo come artistico: Aubrey Beardsley, Honoré Daumier, Grandville, Gustave Doré, John Leech estendono anche la propria area d’azione dal libro alle riviste illustrate. Odilon Redon tra il 1888 e il 1896 realizza tre serie di litografie per La Tentation de saint Antoine di Flaubert, rifiuta addirittura il termine illustrazione preferendo quello di «arte suggestiva» oppure, con ripresa dell’espressione poetica di Baudelaire, «correspondance».
Édouard Manet crea cinque memorabili illustrazioni per Le corbeau di Edgar Allan Poe tradotto da Stéphane Mallarmé nel 1875, e nell’affiche pubblicitaria il suo nome appare nella stessa dimensione di quello del poeta. Il libro è edito in 240 esemplari al prezzo di 25 franchi l’uno. Nello stesso tempo Edgar Degas pone mano al progetto di illustrare i racconti di Guy de Maupassant, e nel 1878 Marpon e Flammarion pubblicano L’Assommoir di Zola in 260 esemplari con 62 tavole di diversi autori, tra cui quattro incisioni di Pierre-Auguste Renoir.
Poi viene Ambroise Vollard, che intuisce che il libro può essere un veicolo della teoria di Veblen: arte e mondanità, «conspicuous consumption» nella declinazione capitalistica. Ma Vollard comprende soprattutto che l’incisione e l’arte a stampa, che il libro inteso come opera d’arte, o meglio, che l’opera d’arte in forma di libro, diffondono un gusto e un’opinione radicandoli, fanno cultura e non moda, creando un territorio magico del collezionismo che nessuna speculazione potrà mai assoggettare. È lui a intuire che lo specchio naturale dell’immagine pittorica è la poesia, e che l’incisione ne è il luogo deputato. Nel 1896 Vollard pubblica l’edizione di Les peintres-graveurs con l’allora semisconosciuto Cezanne e con Bonnard, Vuillard, Denis, Sisley, Toulouse-Lautrec.
Vollard racconta nei Souvenirs delle sue passeggiate sui Lungosenna e delle soste presso i «bouquinistes» alla ricerca di libri e stampe. Un giorno è un semplice frontespizio a colpirlo: «Ambroise Firmin-Didot, éditeur». Da questa illuminazione nasce l’idea di «Ambroise Vollard éditeur» e l’inizio di una nuova attività che lo porta a fondare l’arte del «livre de peintre». Nel 1900 pubblica Parallèlement, raccolta di poesie di Paul Verlaine illustrate da Pierre Bonnard e tirate con inchiostri colorati da Auguste Clot: «È più difficile concepire un libro che costruire tutto un quartiere o delle intere città come New York, Chicago o Philadelphia», afferma Vollard, che dal 1900 al 1939 si dedica principalmente alla produzione di opere d’arte in forma di libro. Egli sceglie per le sue realizzazioni i grandi classici e pubblica Omero, Virgilio, Esiodo; tra i francesi sceglie quelli meno lontani dalla classicità, La Fontaine e Baudelaire. Nel 1901 Vollard incontra Picasso, arrivato di fresco dalla Spagna e abilissimo incisore, oltre che sperimentatore di tecniche grafiche inedite. Oltre alla mostra che ne segna il debutto parigino, Picasso realizzerà per lui tra il 1930 e il 1937 un centinaio di acqueforti, divenute leggendarie con il titolo di Suite Vollard.
Le chef d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac è uno dei capolavori della storia di Vollard: realizzato con acqueforti e legni di Picasso, è edito nel 1931. La vicenda del rapporto ossessivo sino alla follia del pittore con la modella diventa, in Picasso, una sorta di monumento visivo all’idea stessa di pittura. Tra il 1934 e il 1936 Vollard realizza tre libri con illustrazioni di Edgar Degas a partire dai monotipi che l’artista eseguiva di solito dopo pranzo dallo stampatore Cadart e che definiva «i piatti del giorno»: sono La maison Tellier di Guy de Maupassant, Mimes des courtisanes de Lucien di Pierre Louÿs e Degas/danse/dessin di Paul Valéry. Vollard sin dal 1923 aveva dato incarico a Marc Chagall di illustrare Les âmes mortes di Gogol e, dal 1927, Les fables di La Fontaine. I due libri furono editi dopo la morte di Vollard, rispettivamente nel 1947 e nel 1952, da Tériade, altro genio del libro come opera d’arte che dal 1928 collabora con Albert Skira pubblicando libri d’artista di Picasso, Matisse, Dalí. Alcune opere importanti, già progettate da Vollard, sono portate invece a compimento da Martin Fabiani, suo socio e successore: la principale è Picasso: eaux-fortes originales pour des textes de Buffon, uscita nel 1942.
Nello stesso 1900 questi «artworks in book form», come scrivono Cornelia Lauf e Clive Phillpot, trovano una definizione precisa nel libro The ideal book or book beautiful, a tract on calligraphy, printing and illustration & on the book beautiful as a whole di Thomas James Cobden-Sanderson, seguace di William Morris: ma alla fine, a prevalere nel dire corrente è la dizione «livre de peintre», libro d’artista. Da allora ad oggi, nulla è cambiato dal punto di vista delle concezioni e delle intenzioni. I libri d’artista diventano una nicchia ghiotta e specifica, vivida d’invenzioni, della produzione, in significativa controtendenza rispetto alla progressiva sfortuna presso i collezionisti della grafica d’artista, e offrono continui notevolissimi estremi sperimentali: dal «libro imbullonato» di Fortunato Depero, 1927, alle Twentysix Gasoline Stations, 1962, di Ed Ruscha. Ma il «livre de peintre», quello fatto di parole alate e immagini intense, è ormai accolto come una pratica artistica di eccellenza.
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