Lucian Freud oltre la leggenda biografica

Il centenario del pittore inglese ha ispirato non meno di 7 mostre a Londra. Inoltre, due pubblicazioni definitive del 2021 si concentrano su aspetti specifici della sua opera, in anticipo su un eventuale catalogo ragionato completo

Lucian Freud nel 2003 intento a ritrarre un cavallo © David Dawson—Courtesy of Hazlitt Holland-Hibbert
David Ekserdjian |  | Londra

Il centenario di Lucian Freud (1922-2011) ha ispirato non meno di 7 mostre a Londra. Inoltre, due pubblicazioni definitive del 2021 si concentrano su aspetti specifici della sua opera, in anticipo di un eventuale catalogo ragionato completo. La più significativa di queste mostre è alla National Gallery (fino al 22 gennaio), dove Freud è stato uno dei trustee: l’adorava (era solito dire «Vado alla Galleria più o meno come se fossi un medico») e aveva diritto a visitarla a qualsiasi ora del giorno e della notte. Non vi è dubbio che sia stato un pittore molto importante, ma il suo fascino non ha a che fare solo con la sua arte.

Nel contempo non bisogna sorprendersi tanto della sua leggenda biografica perché altrimenti si rischia di sottovalutare i suoi veri meriti. In primo luogo, almeno all’inizio della sua carriera, il fatto di avere Sigmund come nonno non può essere stato d’aiuto. Nato a Berlino, Freud si trasferisce a Londra con la sua famiglia nel 1933 dopo l’arrivo di Hitler. Era troppo giovane per aver potuto studiare la pittura moderna tedesca prima di partire, ma nella sua arte ci sono forti accenti della Neue Sachlichkeit e di Egon Schiele.

Era un bellissimo uomo dal carisma eccezionale, amico del bel mondo. Grande dongiovanni, ha avuto numerosi figli, e non solo dalle sue due mogli: 14 figli certi, mentre secondo alcune voci sarebbero circa una quarantina. Dall’inizio alla fine della sua carriera, la sua famiglia, nel senso più esteso della parola, era forse il suo soggetto preferito, e non esitava a spogliare, fisicamente e psicologicamente, i suoi familiari.

Alcune delle sue opere, soprattutto gli svariati ritratti delle proprie figlie nude, come Bella del 1982-83 quando aveva poco più di vent’anni, sono profondamente inquietanti (questo quadro, come tutti gli altri discussi in seguito, fa parte della mostra alla National). Al confronto il disegno della mamma morta del 1989 risulta innocuo. Nella vita privata Freud amava per dirla con Balzac, «les splendeurs et misères» della società. Era drogato delle corse dei cavalli e del gioco più in generale, e in questo universo e altrove si aggirava con criminali o quasi.

Nella mostra «Horses & Freud» da Ordovas (conclusasi il 16 dicembre), a parte varie opere, viene esposta una lettera ufficiale del Turf Register, l’addetto al controllo delle corse, datata 1 novembre 1965, che gli proibisce di mettere piede negli ippodromi o di fare scommesse, a meno di estinguere i suoi debiti. Molto più tardi Freud confessò di non essere più ossessionato dal gioco perché aveva tanti soldi e di non essere più capace di rischiare. Continuava però ad amare i cavalli e il suo favorito, di nome Sioux, ha preso parte al suo funerale ed era alla testa del corteo funebre.
«Girl with a Kitten» (1947) di Lucian Freud, Londra, Tate © The Lucian Freud Archive. All Rights Reserved 2022 / Photo Tate
Per ciò che concerne «gli splendori», i soggetti di molti dei suoi ritratti, e non solo quello della regina Elisabetta II, sono vip. Non importa se fossero aristocratici, miliardari, politici, artisti, tutti vengono trattati con la medesima crudeltà incrollabile. Quasi sempre i titoli di questi ritratti non rivelano l’identità del soggetto: Andrew Parker Bowles, l’ex marito di Camilla, è semplicemente «The Brigadier» (2003-04), anche se troppo famoso per non essere riconosciuto. Le uniche eccezioni a questa specie di autopsia visiva datano dagli anni ’40 e di solito rappresentano amiche o mogli, o sé stesso. Un esempio squisito è «Girl with a Kitten» (1947) alla Tate, ritratto di sua moglie, Kitty Garman, figlia del grande scultore Jacob Epstein, dove il gattino è un gioco di parole sul suo nome.

Verso il 1960, invece, la sua pennellata si trasforma e diventa sempre più sciolta, facendo pensare al tardo Tiziano o a Rembrandt. Il suo autoritratto nudo, «Painter Working. Reflection» (1993), combina una libertà di tocco con uno sguardo spietato su sé stesso. Come il suo grande amico e rivale Francis Bacon, Freud è sempre rimasto fedele alla pittura figurativa in un periodo in cui molti altri artisti e critici hanno voluto festeggiare la sua morte imminente e celebrare invece il trionfo dell’astrazione. Inoltre nel corpus di Freud i due generi predominanti, il ritratto e il nudo, sono perfettamente tradizionali, benché il suo modo di affrontarli sia profondamente originale.

Un altro suo merito, assai insolito dal ’900 in poi, è stata la sua risoluta evoluzione stilistica andata instancabilmente avanti, al contrario di molti artisti moderni. Solo negli ultimi anni, a mio avviso, delude con quadri monumentali incapaci di sorprendere, per esempio, «Sleeping by the Lion Carpet» (1996), che ci offre Sue Tilley, una donna obesa e nuda, che però alla fine è una grande noia. I due libri menzionati all’inizio sono molto diversi. Lucian Freud: The Copper Paintings (Yale University Press) raccoglie i 14 dipinti su rame che ha eseguito nella sua carriera, tutti piccoli come il formato del volume e databili tra 1949 e 1953. Scientifiche e intense, queste miniature si dividono tra ritratti e nature morte, genere che Freud tende a evitare, con l’aggiunta di un unico prospetto del Grand Union Canal a Paddington, vicino al suo studio.

Lucian Freud: Catalogue Raisonné of the Prints (Modern Art Press) invece, misura 37x21 cm, e copre settant’anni di attività (1937-2007) con una grande pausa tra 1948 e 1982, e il numero di opere ammonta a 112. Di solito le stampe di Freud sono strettamente collegabili ai ritratti e ai nudi che stava dipingendo rispetto ai quali talvolta rischiano di essere migliori, riservando bellissime sorprese.

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