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La fine del viaggio

Il mito e la tragedia che si incarnano nella storia hanno ispirato per oltre cinquant’anni Jannis Kounellis, scomparso lo scorso febbraio

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Franco Fanelli

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Jannis Kounellis è morto il 16 febbraio a Roma, la città che lo aveva adottato da quando, ventenne, vi si era trasferito dalla Grecia, dov’era nato nel 1936, per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Non se ne andava dalla Grecia classica, ma da quella bizantina della pittura di icone senza tempo, lui che pittore voleva ostinatamente esserlo e definirsi, ma come Masaccio e Tiziano che spesso citava, appartenente a una cultura mediterranea radicata nel mito e nella tragedia che s’incarnano nella storia.

Burri e Fontana, per sua stessa ammissione, esercitarono sulla sua formazione un influsso che definiva «promordiale»: perché la materia e i simboli e la memoria di cui essa si fa portatrice saranno per sempre le sue Muse ispiratrici, insieme all’energia vitale che, orchestrata in opere leggendarie, come i «Cavalli» vivi esposti nel 1969 alla Galleria L’Attico di Roma, diventa essa stessa gesto pittorico. Era approdato a questa straordinaria intuizione (Mimmo Paladino le dedicherà un omaggio nel suo film sul Don Chisciotte), capace di coniugare mito e storia (amava il «Marat» di David e «La zattera della Medusa» di Géricault) dopo esordi pittorici antitetici rispetto all’Action painting, con grandi quadri bianchi solcati da lettere e numeri neri. Nella Roma del sodale Pascali e di Twombly, nella città su cui aleggiava il mito (vivente) di de Chirico, concepiva installazioni dal respiro drammaturgico. Ecco le carboniere e l’uso di ferro e putrelle, riflessioni sull’Ottocento, il secolo in cui la modernità prende vita in tutte le sue contraddizioni: Zola, del resto, era uno dei suoi scrittori amati.

Il viaggio, fatidico rimando a quello di Odisseo, è un altro tema onnipresente: lo evocano nelle sue opere i sacchi di juta, gli otri, metafore dello spostamento di cibi e civiltà, o i cappotti neri, saio laico dell’uomo del ’900. Materia ed energia, temi cari ai Futuristi, si reincarnano, ma stavolta in forma reale e fenomenica, oltre la narrazione e l’illusorietà della tela, nell’Arte povera, tra il 1967 e il 1968, quando Kounellis partecipa a tutte le mostre che avrebbero storicizzato quel gruppo. Del ’69 è la partecipazione a «When Attitudes Become Form» di Harald Szeemann, che nel ’72 lo invita a Documenta a Kassel, e nello stesso anno Kounellis è alla sua prima Biennale di Venezia.

Lo sostengono galleristi destinati a passare alla storia, da Fabio Sargentini a Plinio de Martiis, da Sperone a Lucio Amelio, e poi Christian Stein, Konrad Fischer, Marilena Bonomo, Karsten Greve. Kounellis, che lascia la moglie Michelle Coudray e il figlio Damiano, da mesi aveva programmato, su invito di Antonella Fusco, dirigente dell’Istituto Centrale per la Grafica, una personale a Palazzo Poli.

Si tratta di una mostra aperta dal 15 marzo al primo maggio e basata su recenti opere, eseguite nei laboratori degli stampatori Albicocco a Udine. Più volte, nei suoi scritti e nelle interviste, Kounellis ha lucidamente parlato dei fondamenti teorici e poetici della sua opera: ne pubblichiamo, qui di seguito, una piccola antologia. Aveva una straordinaria capacità, quella di rendere chiaro il suo lavoro senza quasi mai parlarne direttamente, ma mettendo in primo piano la storia e le sue passioni artistiche e letterarie. Una dichiarazione di poetica scritta nel 1982 costituisce il suo più compiuto autoritratto: «Sono contro il mondo di Andy Warhol e degli epigoni di oggi. Voglio restaurare l’atmosfera vissuta dai Cubisti. Sono contro la condizione di paralisi alla quale ci ha condotto il dopoguerra. Ricerco invece nei frammenti (emotivi e formali) la storia dispersa. Sono contro l’estetica della catastrofe; sono partigiano della felicità. Ricerco quel mondo di cui i nostri padri del Novecento, vigorosi e fieri, hanno lasciato esempi rivoluzionari per forma e contenuto. (...) Amo le piramidi d’Egitto, amo Caravaggio, amo Van Gogh, amo il Partenone, amo Rembrandt, amo Kandinskij, amo Klimt, amo Goya, amo l’impeto della Vittoria di Samotracia, amo le chiese medievali, amo il personaggio di Ofelia così com’è descritto da Shakespeare e onoro i morti pensando, a proposito di me, che sono un artista moderno».


I brani che seguono sono tratti dal libro «Odissea lagunare» di Jannis Kounellis edito da Sellerio, Palermo nel 1993

Vedi, anche gli americani, ormai è standard, scontato, mostrano continuamente Warhol; questo è talmente convenzionale adesso come linguaggio, fa ridere, come se parli delle parole di ferro. Il linguaggio loro subito lo prendono, lo consumano e non serve più a nulla, non lasciano una possibilità di vita dentro all’esperienza della pittura.
da «Un villaggio pieno di rose». Intervista di Carla Lonzi, 1966

Il mio lavoro è assolutamente antiscenografico, c’è la stessa differenza tra il naturale e il naturalista: Burri è naturale, Tàpies è naturalista, rifà un muro per esempio, cioè è scenografico. (...) Il surrealismo europeo e quello francese in particolare è ancora legato ai limiti del quadro. Pollock invece non faceva il quadro, la tela per terra era contenuta nello spazio dell’Universo come la pittura sulla sabbia degli Indios. L’automatismo di Pollock è importante, ma più importanate è il recupero del mondo pre-culturale (nel senso della cultura europea, della tradizione del quadro).
da «Tecniche e materiali». Intervista di Marisa Volpi, 1968

Noi abbiamo in comune con i manieristi la stessa isola di confino, in un’altra epoca. ma dov’è diretta la nostra nave in realtà? Quella di Gauguin è mai arrivata a Tahiti? Oppure quell’isola si trovava in Bretagna dall’epoca di Delacroix? Quante certezze ha vissuto Giotto?
1976

Arshile Gorky in una intervista ha elencato le cose che lo interessavano nell’arte. Dopo averle lette ho scoperto di condividerne la maggior parte. Ci sono fantasmi e amori che sono la base per una discussione tra artisti americani e d europei.
da «Intervista di Robin White», 1979

Io penso che sia veramente uno sbaglio aspettarsi qualche cosa dalla critica. Si è dato un peso alla critica che probabilmente non le spetta. (...) La critica deve fare un suo processo per vedere e legare la sua storia veramente con i reali interessi del lavoro d’arte, attualmente infatti ha degli interessi che sono completamente diversi. E questa è la cosa tragica, non si capisce di che si parla, questo è il guaio grave, non si riesce a capire di che cosa parlano.
da «Sulla storia, la lingua, gli equivoci, il teatro. Dialogo con Bruno Corà», 1980

Nella mia formazione, le opere di Burri e di Fontana hanno avuto un ruolo primordiale, ma anche l’opera di molti altri artisti di quella generazione che trovarono nella materia una via di ricerca. In seguito gli avvenimenti politici ci hanno ispirato una lettura della storia che, senza dubbio, ha avuto un’influenza sulla nostra sensibilità e sul nostro modo di valutare lo spazio permettendo la codificazione di una lingua che, ben inteso, tiene conto delle problematiche storiche e culturali di questo Paese, ma che dall’inizio ha avuto interlocutori in Europa e in America.
1990

Quello che ostacola è che, in Italia lo si vede bene, la maggior parte degli intellettuali è prigioniera dei mass media. C’è una legge del consenso che ostacola un processo di rinnovamento... Boccioni? Dal primo momento, dai primissimi quadri, dal Lutto, si vede la volontà rinnovatrice di quest’uomo, l’uomo del dialogo, delle aperture... Boccioni ha un grande disegno di rinnovo, è visionario in questo suo amore, in questa sua attrazione verso pittori come Munch. È visionario, e per questo va al di là dei risultati. In un periodo in cui la ricerca della identità, e di una grande identità si tratta, culturalmente, è la riduzione in un disegno piccolo, la figura di Boccioni aumenta. Per questo io dicevo che per me è il maestro morale. Perché più di ogni altro rappresenta il tentativo di rinnovamento e di misurarsi con una storia.
1984

Quando penso a una mostra in una galleria privata penso a come era quella casa editrice Shakespeare and Company, cioè non penso alla galleria privata come pura struttura finalizzata in senso commerciale, la trovo come una identità gestita a privati; perché se pensassi che trae una finalità solamente commerciale, sarebbe completamente degradante, mentre così il privato ha la dignità di gestire una cosa pubblica, la differenza sta lì.
da «Intervista di Giancarlo Politi», 1985

Nel bianco di Malevic c’è del giallo perché dietro c’è la memoria dell’oro. La drammaticità che c’è nel nostro lavoro (malgrado il fatto che si riconosce la tensione del quadrato) è perché la memoria di Laocoonte è viva.
da «Omelia», 1985

Da parte mia penso che ci sia una realtà nell’arte italiana rappresentata da Masaccio da un lato, e da Caravaggio dall’altro. Nel loro rapporto con la storia questi artisti sono, per me, profondamente sociali.
da «Intervista di Jean-Pierre Bordaz», 1985

Non ho mai ucciso, ma sono pronto a farlo, se calpestano i miei diritti alla libertà.
Non ho preso in prestito frammenti linguistici, se non per necessità.
Non ho voluto avere altro che cose bellissime.
Ho visto il sacro negli oggetti di uso comune.
Voglio il ritorno della poesia con tutti i mezzi: dall’esercizio, dall’osservazione, dalla solitudine, dal verbo, dall’immagine, dall’eversione.
1987

C’è una grande differenza tra una madonna bizantina e una madonna di Tiziano: quest’ultima è «incarnata», quindi non parte dall’idea platonica che è alla base dell’iconografia bizantina e ortodossa. La madonna di Tiziano è l’inizio di tutte le libertà e come pittore occidentale non puoi non essere attratto da quella madonna. Rappresenta un’intuizione ideologica, portatrice di una libertà che è dialettica e che mette in crisi la stabilità. (...) Noi europei abbiamo sterminato sei milioni di ebrei. Credo che noi artisti europei, in un certo senso, stiamo scontando quella colpa. Ma credo che sia necessario pagare i propri errori per essere liberi.
da un’intervista di Franco Fanelli,  «Il Giornale dell’Arte» numero 289, luglio 2009

Franco Fanelli, 02 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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