La Biennale per Ugo Mulas

Dal 1964 al 1972 la Biennale di Venezia è stata il suo soggetto preferito prima di documentare la scena artistica newyorkese: un libro e due mostre rilanciano il grande fotografo

«Andy Warhol» (1964) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti
Chiara Massimello |

Era la Biennale del 1964, sono trascorsi 58 anni da allora. Ugo Mulas, dieci anni prima, con Mario Dondero, aveva pensato di realizzare un servizio fotografico sull’Esposizione internazionale veneziana, una sorta di reportage da proporre per la pubblicazione ai giornali. Insieme avevano raggiunto la laguna il giorno dell’inaugurazione con un passaggio su un furgone che, di notte, consegnava «L’Unità» alle edicole lungo il percorso. La prima macchina fotografica gli era stata prestata da poco e dell’uso conosceva solo i rudimenti: «Un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo e cinque-sei all’ombra».

Niente corsi, niente dibattiti nei circoli fotografici del tempo, più che altro l’intenzione di guadagnare un po’ di soldi dopo aver deciso di non laurearsi in giurisprudenza e di iscriversi a un corso serale all’Accademia di Brera. Da allora, fino al 1972 (un anno prima della sua morte, a soli 44 anni), Mulas ha seguito la manifestazione scattando foto straordinarie degli artisti, delle opere e dell’atmosfera della Biennale: Max Ernst sul vaporetto, Alberto Giacometti che vince l’edizione del 1962, Fausto Melotti, Emilio Vedova, Lucio Fontana. Gli allestimenti, il pubblico, i caffè all’aperto e la città animata e festosa. Immagini scattate con naturalezza, senza enfasi, che colgono il lato umano degli artisti e la vivacità intellettuale e mondana del momento.
«Max Ernst a Venezia» (1954) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti
Di quei 14 anni, secondo Mulas, è «con l’edizione del 1964 che la Biennale ha toccato il suo vertice». In quell’anno accade qualcosa di importante per l’arte e per la sua carriera artistica. Alla Biennale, tra onori e polemiche, sono presentati al pubblico europeo i pittori americani e la Pop art. Gli Stati Uniti portano in laguna una nuova ondata di energia, un’esplosione, un desiderio di cambiamento inarrestabile. Dopo secoli in cui era l’Europa l’indiscusso centro della cultura, a Venezia gli artisti americani ricevono la loro consacrazione internazionale e spostano il fulcro dell’arte oltreoceano. L’edizione del 1964 è vinta da Robert Rauschenberg. Mulas immortala il trasporto delle sue grandi tele sui barconi lungo i canali e fotografa gli artisti americani presenti.

È così che conosce il critico Alan Solomon, allora direttore del Jewish Museum e curatore del padiglione degli Stati Uniti di quell’anno e il mercante Leo Castelli, molto coinvolto nel nuovo panorama artistico newyorkese. Mulas decide di partire per gli Stati Uniti dove Solomon lo mette in contatto con Jasper Johns, Frank Stella, Roy Lichtenstein, Barnett Newman, Andy Warhol e Marcel Duchamp. Non parla inglese, ma osserva discreto e silenzioso gli artisti nei loro studi. Ama l’arte e si interroga sul rapporto tra l’opera e il pensiero che la realizza, sul significato del lavoro e sulla personalità dell’artista.
«Jasper Johns» (1964) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti
Elabora una propria comprensione e interpretazione, una sorta di critica per immagini dove «vedere è già capire». Non servono le parole. New York: arte e persone è un viaggio memorabile dentro la pittura americana, una visione d’insieme che comprende più di cinquecento immagini, rigorosamente in bianco e nero, pubblicate a tre anni dalla Biennale del 1964. Dopo l’introduzione scritta dallo stesso Solomon, inizia il reportage sugli artisti, immortalati nei loro studi in ritratti intensi, personali e intimi.

Accanto a essi, la documentazione del fermento della nuova scena artistica, le feste dopo le inaugurazioni delle mostre, la città piena di fascino e contraddizioni. Per non fare preferenze, la presentazione segue scrupolosamente un ordine alfabetico, tranne che per due artisti, i due maestri, Newman e Duchamp. La sequenza di immagini dedicata al grande artista francese (poi naturalizzato americano) va molto oltre la semplice idea del ritratto, o del reportage. Sono dieci fotografie (raccolte in un portfolio nel 1972) in cui Mulas cerca di rendere l’atteggiamento mentale e concettuale di Duchamp.
«Marcel Duchamp» (1972) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti
Una sorta di «azione fotografica» in cui il maestro, ispiratore di molti artisti della nuova generazione americana, è rappresentato nel suo atteggiamento del «non fare». E un comportamento simile al «non fare» è proprio il camminare, un movimento semplice, naturale, «un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento del vivere e basta», oppure il sedersi davanti a una scacchiera di cemento nel parco, senza neanche guardarla, andare al Museo d’arte moderna o restare a casa, tra le opere, come un visitatore qualunque. In queste immagini, Duchamp diventa egli stesso opera d’arte.

Mulas non crede che la fotografia sia cogliere un attimo fuggente, ogni attimo lo è. Anzi, a volte, sono proprio i momenti meno significativi quelli più interessanti. L’importante è individuare una propria realtà, la macchina dovrà poi registrarla. L’immagine esiste già, al fotografo spetta un’operazione mentale, sceglie quello che vuole fotografare. La sua arte sta proprio in questa sua scelta. Lo scatto che segue, di per sé, è un’operazione meccanica e strumentale.
A distanza di quasi quarant’anni, sarà ancora New York ad accogliere il suo lavoro.
«Bar Jamaica» (1953-56) di Ugo Mulas. Collezione Massimo Prelz Oltramonti
In occasione della pubblicazione del libro, scritto da Flavio Fergonzi, dedicato alle foto di Jasper Johns e al rapporto di Mulas con il grande artista americano, la galleria Robilant+Voena gli dedicherà un’esposizione personale. Ma prima ancora, a fine maggio, The Phair, la Fiera torinese della fotografia, allestirà la mostra «Ugo Mulas: dall’Italia del dopoguerra all’America della Pop art»: sessanta fotografie, vintage, da una collezione privata.

Chiara Massimello è Art advisor e consulente Christie’s

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