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«Maternità» (1921) di Achille Funi.

Galleria Berman, Torino

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«Maternità» (1921) di Achille Funi.

Galleria Berman, Torino

Il Novecento mitico di Achille Funi

A quarantasette anni dall’ultima retrospettiva, riunite nel Palazzo dei Diamanti 130 opere dell’artista più classico del ’900 italiano

Valeria Tassinari

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Che Virgilio Socrate Funi (Ferrara, 1890-Appiano Gentile, 1972) avrebbe mantenuto per tutta la vita uno stretto legame con la cultura classica, lo si sarebbe potuto presagire fin dal battesimo. A quei nomi emblematici, voluti dal padre, ne aggiunse e poi sostituì uno dal sapore più eroico, lo pseudonimo con il quale si sarebbe firmato come pittore, dando inizio alla lunga carriera che lo ha visto affermarsi tra i protagonisti della pittura del XX secolo. 

Così Funi fu Achille da quando, nel 1906, si trasferì a Milano per frequentare l’Accademia di Brera, dopo aver compiuto i primi studi d’arte all’Istituto Dosso Dossi di Ferrara, la città emiliana dove era nato nel 1890 e che ora lo celebra, in un certo senso riscoprendolo, con una grande antologica allestita nel Palazzo dei Diamanti fino al 25 febbraio 2024

«Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito» è infatti una mostra concepita per raccontare i momenti salienti della vicenda stilistica e poetica del pittore, e riunisce un grande numero di opere, partendo dal significativo nucleo di proprietà dei musei ferraresi e integrandole con prestiti importanti e in parte inediti, di cui 23 istituzionali e numerosi altri attinti dal bacino più intimo del collezionismo. Sorprende, in realtà, che, a quasi cinquant’anni dalla prima retrospettiva organizzata da Franco Farina nel 1976, solo adesso la figura di Funi sia di nuovo oggetto di attenzione nella sua città natale, nonostante l’ormai consolidata rivalutazione del Futurismo e del Novecen-to italiano, movimenti di cui il pittore è stato tra i protagonisti. 

L’idea è di Vittorio Sgarbi, qui nelle di vesti di presidente della Fondazione Ferrara Arte, che, dopo aver molto apprezzato il focus proposto lo scorso anno al Mart di Rovereto in occasione del 50mo della morte dell’artista, ha voluto rilanciarne e ampliarne la rilettura critica, affidando anche questo progetto a Nicoletta Colombo, responsabile dell’Archivio Achille Funi, autrice del suo catalogo ragionato e curatrice della mostra ferrarese con Serena Redaelli e Chiara Vorrasi. Esperta di pittura del secondo Ottocento e del Novecento italiano e figlia di uno degli ultimi galleristi dell’artista, Nicoletta Colombo ha conosciuto Funi personalmente e continua a occuparsi del suo lavoro, del quale sottolinea la costante fedeltà all’ideale classico, una linea di coerenza e continuità che ne collega tutte le fasi dell’evoluzione creativa.

 

 

«Ragazzo con le mele (Il fanciullo con le mele)» (1921) di Achille Funi.

Tra gli artisti della sua generazione Funi è forse quello al quale si rivolge l’attenzione più tardivamente, anche se è sempre presente nelle mostre che storicizzano i movimenti ai quali ha aderito. Esiste ancora un pregiudizio di carattere ideologico o ci sono altri motivi?

La diffidenza della cultura critica, soprattutto di quella di sinistra, nei confronti degli artisti che hanno operato con successo negli anni del fascismo è ormai stata superata da tempo, e fin dagli anni Ottanta storiche dell’arte molto attente come, ad esempio, Rossana Bossaglia ed Elena Pontiggia, hanno avviato un percorso di rilettura oggettiva, che ha restituito la giusta attenzione agli artisti di quella generazione e alla figura di Margherita Sarfatti. Nel caso di Funi, diversamente da quanto è accaduto per Sironi, esiste un collezionismo di nicchia, preparato e affezionato, persino un po’ geloso delle sue opere che quindi non sono state messe sul mercato e nel circuito delle esposizioni temporanee in maniera diffusa. Credo che la ragione principale sia questa, ma ritengo anche che sia molto opportuno che Ferrara abbia voluto farsi promotrice di una mostra di questo impegno. 

 

 

Quali sono gli aspetti salienti della mostra?

La mostra mette particolarmente in luce due momenti: il periodo giovanile, nel passaggio tra Ferrara e l’Accademia di Brera, quando pur giovanissimo Funi mostrava già una mano ben predisposta al disegno e alla pittura, e la sua precoce adesione al Futurismo, che fu per lui l’occasione di lavorare sulla forma plastica e dinamica, come attestano in mostra sei esempi di varianti sul tema della motocicletta. Ma la sua fu più che altro una necessità di respirare aria nuova, in sintonia con gli amici conosciuti alla scuola di Cesare Tallone, come Aroldo Bonzagni, o Carrà, Russolo e Umberto Boccioni, che lo apprezzava molto, con i quali frequentava l’ambiente antiaccademico della Famiglia Artistica a Milano e il gruppo Nuove Tendenze. Il suo fu un Futurismo moderato, influenzato dal Cubismo, mai del tutto lontano da quella poetica «incastrata nella classicità» che poi ne fece l’artista più classico del Novecento italiano. Tra le 130 opere in mostra, scelte per costruire un percorso cronologico e tematico, figurano i piccoli disegni del periodo in cui si era arruolato come volontario con Boccioni e Marinetti, e i dipinti che testimoniano bene tutti i generi ritrovati grazie al Ritorno all’ordine funiano, con la sua personale interpretazione del Realismo in chiave magica e sospesa.

 

 

Si ricorda anche il Funi maestro d’affresco?

Certo, questo aspetto importante è restituito dall’impatto delle due sale degli anni Trenta, che raccolgono venti cartoni preparatori per opere di grande decorazione parietale. E non dimentichiamo che in quest’occasione i disegni possono essere posti in dialogo con la Sala dell’Arengo del Municipio di Ferrara, visitabile nel periodo della mostra, un esempio emblematico dell’importanza di Funi nell’ambito della pittura murale e della sua capacità di collocarsi sulla linea ereditaria del Rinascimento ferrarese. Emerge un afflato intimo e monumentale, con quel senso della storia e del mito che si ritrova anche in dipinti da cavalletto, come «Publio Orazio uccide la sorella» della Neue Nationalgalerie di Berlino, un’opera che fu portata in Germania dopo la Biennale del ’32 a testimonianza della grandezza della tradizione artistica italiana.  

 

Un ritratto di Nicoletta Colombo

Valeria Tassinari, 26 ottobre 2023 | © Riproduzione riservata

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