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Binta Diaw © e Courtesy Galerie Cécile Fakhoury e l’artista

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Binta Diaw © e Courtesy Galerie Cécile Fakhoury e l’artista

Il non potere nero di Binta Diaw

La giovane artista italo-senegalese a Santa Croce sull’Arno con un grande progetto collettivo in dialogo con i suoi lavori recenti

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Jenny Dogliani

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Classe 1995, nata a Milano e attiva tra Milano e Dakar, apprezza la scultura minimalista, l’approccio poverista alla materia e l’arte motivata da messaggi sociali, culturali e storici. Binta Diaw, giovane artista italo-senegalese, è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera e all’ÉSAD di Grenoble e ha già un importante curriculum, che vanta, tra le importanti partecipazioni, quella alla Biennale di Liverpool del 2023 e la selezione nella rosa dei finalisti della quarta edizione del MAXXI Bulgari Prize. Nel suo lavoro analizza con complesse e raffinate installazioni temi che spaziano dalla migrazione al concetto di corpo interpretato come spettro attraverso il quale mettere in discussione la storia e la contemporaneità. Fino al 3 marzo il suo lavoro è esposto in una personale realizzata per il Centro Espositivo Villa Pacchiani di Santa Croce sull’Arno (Pi), su invito della curatrice Ilaria Mariotti nell’ambito di una più ampia iniziativa del Comune di Santa Croce sull’Arno realizzata per Toscanaincontemporanea2023 e con la collaborazione di Crédit Agricole Italia.

Intitolata «Del Cosmo e della Terra», la mostra presenta opere recenti e un progetto site specific nato in dialogo e con la partecipazione della comunità locale. 14.600 abitanti, per il 23% migranti provenienti da oltre 50 Paesi, Santa Croce sull’Arno è nota nel mondo per la lavorazione del cuoio e della pelle ed è caratterizzata «dalla presenza di una comunità senegalese molto forte e attiva», spiega l’artista, alla quale abbiamo rivolto alcune domande. Collaborano attivamente all’iniziativa numerose associazioni del territorio: Associazione COSSAN - Comunità senegalese di Santa Croce sull'Arno e Associazione DISSO - Diaspora senegalese per lo Sviluppo e la Solidarietà, l’Associazione Arturo, l’Associazione Carnevale d’autore, l’Istituto comprensivo Santa Croce sull’Arno, The Recovery Plan, Firenze.

Com’è nato il progetto?
Sono stata invitata a produrre un’opera che derivasse dall’interazione con la comunità locale, a realizzare un lavoro collettivo e partecipativo da mettere in relazione con gli altri miei lavori e con la mia pratica artistica. È nata così una nuova versione di «Black powerless», un work in progress sull’afrodiscendenza che ho realizzato per la prima volta a Firenze nel 2021, incentrato sulle questioni identitarie legate alla nerezza: un’opera collettiva composta dall’insieme dei calchi delle braccia delle persone incontrate (di origine africana) intente a riprodurre il simbolo del Black power. Un gesto iconico nato negli Stati Uniti negli anni ’60, espresso attraverso il saluto con il pugno alzato a indicare le rivendicazioni del popolo nero, della propria cultura, delle proprie origini e delle proprie radici.
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Il titolo, «Black powerless», allude però a una mancanza di potere.
L’idea era quella di giocare con le parole: non potere nero, ma nero senza potere. Un lavoro sul concetto di cittadinanza e di ius soli, sul fatto che nonostante ci sia un grandissimo numero di giovani italiani afrodiscendenti, nati in Italia, non c’è ancora il riconoscimento di questo diritto e la cittadinanza è concessa solo al compimento del diciottesimo anno. Il concetto di potere muta in un concetto di fragilità sociale, culturale e politica. Anche la scelta del silicone non è casuale, è un materiale che si oppone al concetto di potere.

Come sono stati recepiti dalla comunità locale il tuo lavoro e la tua pratica artistica?
È stata coinvolta la comunità senegalese, i giovani in particolare. Ci sono stati un paio di incontri durante i quali ho potuto conoscere gli esponenti delle varie associazioni sul territorio (sempre senegalesi). Insieme a Ilaria Mariotti ci siamo concentrate sui giovani, che sono il nostro futuro e che spesso è difficile coinvolgere in attività al di fuori della scuola o dei loro interessi. Abbiamo dapprima raccolto le storie e le testimonianze delle loro famiglie: in che modo la comunità si è instaurata sul territorio, come vivono, come sono coinvolti nel lavoro. Nel primo incontro con i ragazzi, tutti di origine senegalese nati e cresciuti in Italia, sono emersi gli stessi temi identitari che hanno toccato anche me e attraversato il mio lavoro. Così li ho invitati nel laboratorio per realizzare i calchi delle braccia (in silicone), un’operazione piuttosto lunga che mi ha dato modo di conoscerli ulteriormente. Alla realizzazione dei calchi hanno accettato di partecipare solo ragazze, ciò ha conferito all’opera una valenza completamente al femminile, aggiungendo un’ulteriore rivendicazione, quella dei diritti delle donne.
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L’elemento femminile ricorre anche in altri lavori in mostra, per esempio nella scultura di trecce di capelli «Reeni Yakar - les racines de l’espoir».
È un’opera del 2022, stavo lavorando sul concetto di mangrovia, sistemi agglomerati di piante che crescono insieme e si sorreggono a vicenda attraverso radici molto fitte e comunicanti. Sono rimasta colpita dal loro aspetto, dalla loro connettività, dalla dimensione poetica e metamorfica, da come cambiano e si adattano durante le stagioni, dal loro legame con la terra, l’acqua e il cielo, dal fatto che crescano sempre in zone marginali e periferiche. Tutti questi aspetti mi hanno fatto riflettere su come le diaspore siano entità ramificate, sempre connesse al loro Paese d’origine, radicate a un luogo, a un territorio, a una cultura, a delle tradizioni. Ho iniziato a lavorare su questo gruppo di sculture dalle sembianze umane e vegetali, fatte di capelli intrecciati. Inoltre per fuggire dalla schiavitù e dalle piantagioni le schiave comunicavano tra loro attraverso le acconciature, la disposizione e conformazione delle trecce erano messaggi in codice per organizzare la fuga, che aveva sempre come punto di ritrovo e di rifugio le foreste di mangrovie.

Il legame con la terra sia come senso di appartenenza alle proprie radici sia come vicinanza alla natura sia come materiale artistico torna anche in un’altra opera in mostra, «1.12.44-3».
È una delle tante vicende storiche che lega il Senegal alla Francia, alla nazione che l’ha colonizzato. L’opera nasce dal racconto dell’uccisione di un grande numero (sconosciuto) di soldati africani che avevano combattuto nella seconda guerra mondiale, i Tirailleurs sénégalais, un corpo di fanteria coloniale dell’esercito francese. Quando tornavano in Senegal transitavano in un campo prima di ricongiungersi alle loro famiglie e ricevevano la paga. Lì, all’alba del primo dicembre del 1944, un gruppo di soldati ricevette una paga minore di quella pattuita e decise di protestare in modo pacifico con uno sciopero della fame. L’esercito lo interpretò però come un atto di violenta ribellione e decise di sterminarli, all’alba, a sangue freddo, per spegnere la protesta.
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Una vicenda cruenta e ignota.
Mi capita spesso di lavorare e fare ricerche su vicende poco note e sconosciute, come questa, eventi dimenticati e invisibili, ma affini a delle dinamiche presenti nella contemporaneità, dove il colonialismo di fatto è ancora presente, basti pensare, per esempio, al franco senegalese, che viene stampato e gestito in Francia. L’opera si presenta come un campo agricolo, composto da cumuli di terra con i solchi che si fanno per piantare i semi, ma allude anche a delle tombe, al ciclo della vita e della morte, alla storia dimenticata. Su questi cumuli sono appoggiati i cappelli tipici della divisa dei tirailleurs sénégalais. L’opera è accompagnata da una traccia audio che fa da sottofondo alla mostra, la lettura dei documenti nei quali sono annotati i nomi dei sopravvissuti e alcune frasi della tradizione orale senegalese.

La mostra a Villa Pacchiani si chiude con il video «Essere corpo», una danza liberatoria che riconnette l’essere umano alla terra e alle sue radici primordiali.
È l’unico video esposto ed è anche l’opera più vecchia (è del 2016), attraverso di esso si può leggere e capire tutto quello che si è visto in mostra, l’origine e l’essenza di tutto il mio lavoro. È la video documentazione di una performance, una danza che esprime una relazione con la terra e che si svolge attraverso passi e movimenti all’indietro, un ritorno allo stato primordiale dell’essere umano e alla natura.
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Dal cosmo alla terra e dalla terra al cosmo. La sua arte ha un legame profondo con la cultura e l’estetica africana e un profondo valore universale.
L’arte è alla base di ogni Stato e cultura africana, molte correnti qui non sono state riconosciute perché non sono conformi a quello che noi concepiamo come arte. Ma l’arte deve circolare ha bisogno di muoversi in un mondo senza limiti e senza frontiere.

Jenny Dogliani, 01 febbraio 2024 | © Riproduzione riservata

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