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Gurlitt sapeva quel che faceva

Lo ha stabilito la corte. Quasi più nulla ostacola il passaggio della collezione al Kunstmuseum di Berna

Flavia Foradini

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La sentenza che lo scorso 15 dicembre ha affermato la capacità di Cornelius Gurlitt di intendere e di volere al momento della redazione del suo testamento, con il quale l’81enne lasciava in eredità ogni avere al Kunstmuseum di Berna, e in particolare la sua collezione d’arte, ha prodotto una significativa svolta nell’intricata vicenda della raccolta di circa 1.500 opere che Hildebrand Gurlitt, agente di Hitler durante la seconda guerra mondiale, creò in parte con dipinti di un antenato, ma perlopiù con opere francesi e tedesche dell’800 e ’900.

Dopo la guerra Hildebrand, ininterrottamente attivo come operatore del settore e direttore di museo, aveva più volte attinto dalla copiosa collezione per mostre anche di primo piano non solo in Germania. Dopo la sua morte nel 1956, la raccolta era stata custodita dal figlio Cornelius nel suo appartamento di Monaco di Baviera. Era stata scoperta solo nel febbraio del 2012 in seguito a un’indagine del fisco e la notizia era trapelata all’inizio di novembre 2013 (cfr. n. 337, dic. ’13, p. 1). Sequestrata dalle autorità, la collezione è stata per due anni sotto la lente di un team internazionale di ricercatori, finanziato dal Governo tedesco per accertarne la provenienza.

L’attività della «task force», come venne chiamato il team al momento della costituzione, ha avuto tuttavia un brusco arresto alla fine del 2015, quando tutte le ricerche sono state accentrate nel nuovo Deutsches Zentrum Kulturgutverluste di Magdeburgo. Con i suoi lavori, la task force era riuscita a concludere gli accertamenti su una dozzina di opere e aveva annunciato che circa 600 restanti erano frutto di razzie naziste, laddove 162 lo sono quasi certamente.

Solo per 500 opere della collezione la commissione era riuscita a escludere con certezza che fossero frutto di spoliazioni. Dati che non possono non far nascere perplessità sull’affermazione contenuta nel comunicato stampa del Kunstmuseum di Berna del 15 dicembre, nel quale si afferma che «le ricerche su gran parte delle opere sono state nel frattempo concluse per quanto concerne la loro provenienza, sgombrando il campo da sospetti che si trattasse di arte razziata».

Dimenticate paiono le grandi polemiche nate in seguito all’impazienza di parte dei media e della politica non solo tedeschi, rispetto all’ovvia lentezza delle operazioni di ricerca della task force, che inutilmente aveva cercato di far presenti le innumerevoli difficoltà di reperimento di informazioni e dati e la necessità di massima accuratezza nella redazione e nella gestione dei dossier.

Il Kunstmuseum ha dichiarato che grazie alla sentenza di Monaco del 15 dicembre «è ora possibile per il Kunstmuseum sostenere la ricerca portata avanti dal Deutsches Zentrum Kulturgutverluste». In che modo e in che misura non viene tuttavia indicato, laddove il museo ipotizza una prosecuzione delle indagini sulla provenienza «presumibilmente sino alla fine del 2017». Un tempo che appare eccessivamente breve per poter garantire la necessaria precisione.

Il comunicato ufficiale del Kunstmuseum di Berna focalizza poi l’attenzione sul progetto di una mostra congiunta elvetico-tedesca alla Bundeskunsthalle di Bonn e nella capitale svizzera, già annunciata da tempo ma rimandata per le questioni legali sollevate dalla cugina di Gurlitt. L’intento della mostra, si legge nella nota, è quello della «trasparenza». Il focus principale sarà «sui traffici d’arte del regime nazista, sulle figure che davvero giocarono un ruolo importante, in particolare su quali collezionisti e artisti ebrei furono vittime di razzie d’arte e dell’Olocausto, nonché su come dopo la guerra opere d'arte razziata tornarono ai musei e alle collezioni private».

Flavia Foradini, 10 gennaio 2017 | © Riproduzione riservata

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