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Diane Arbus posa per un raro ritratto in un self-service nella Sixth Avenue a New York, 1968 circa

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Diane Arbus posa per un raro ritratto in un self-service nella Sixth Avenue a New York, 1968 circa

Cinque fotografe indiscrete

Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman ritratte in brevi saggi-racconti di Elisabetta Rasy, intervistata da Il Giornale dell'Arte

Stefano Miliani

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Cinque fotografe, Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman, ritratte attraverso brevi saggi-racconti che scavano tanto nelle vite complicate come nella loro arte, nella loro dedizione alla fotografia. Con il libro Le indiscrete, pubblicato da Mondadori,la scrittrice e saggista Elisabetta Rasy (una laurea in Storia dell’arte) ha disegnato cinque ritratti illuminanti e profondi. Sono pagine di forte acume psicologico, avvolgenti, scorrevoli, perfino d’affetto nonché di grande empatia, per usare un termine caro all’autrice, nata a Roma nel 1947 e che qui racconta questo suo viaggio.

Elisabetta Rasy, perché ha ritratto le cinque fotografe? 
Dopo il mio precedente libro Le disobbedienti del 2019, su sei pittrici dal ’600 al ’900, ho proseguito con la fotografia per due ragioni. La prima è che amo molto alcune fotografe contemporanee come Nan Goldin, Sally Mann, Cindy Sherman e la messicana Graciela Iturbide. L’altra ragione è che la fotografia, arte dal ’900, non ha una storia tutta maschile alle spalle, è nuova.

Come ha scelto le cinque artiste?
Ero interessata a figure che avevano realmente operato una trasformazione iconografica. Tina Modotti, Dorothea Lange, Lee Miller, Diane Arbus e Francesca Woodman sono artefici di una nuova visione: è questo il punto. Da narratrice inoltre ho un occhio per le storie romanzesche, e i loro vissuti sono fatti anche di emozioni e incontri. Per tutte c’è qualcosa che fa nascere la vocazione. Per esempio Lee Miller: come Tina Modotti è bellissima, potrebbe fare la modella però quando le dicono che è la ragazza più fotografata d’America lei risponde che non vuole «essere» una fotografia, vuole «fare» una fotografia. A Parigi con Man Ray impara la visionarietà surrealista. Diventerà fotografa di guerra perché non vuole fare più fotografie di moda e ha la capacità dello sguardo surrealista di vedere contemporaneamente la realtà e la visione, l’oggettività e l’incubo: la foto della figlia del borgomastro di Dresda, che si è suicidato con tutta la famiglia, in divisa nazista sul divano è indimenticabile. Oppure Diane Arbus che, da fotografa di moda, si immerge nel mondo dei freak, dei diversi, dei travestiti, degli obesi, di chi ha handicap psichici, degli esclusi. Dicono che è una matta. Invece diventa una sorta di Caravaggio fotografico del Novecento.

Francesca Woodman ha una vicenda del tutto diversa dalle altre. A partire dal suicidio ad appena 23 anni. Come l’ha inclusa?
Anche Diane Arbus ha una tragica fine, ma non così giovane. Il libro ha una circolarità: da Tina Modotti italiana che emigra in America, arriva alla Woodman che trova l’ispirazione artistica in Italia. Lei racconta il corpo femminile a partire dal suo non come oggetto di seduzione, magia, perfezione, ma da scoprire nella sua ombrosità, con l’iconografia di un corpo misterioso e fragile completamente diversa da quella tramandata per secoli, la Woodman compie una grande rivoluzione.

Una domanda annosa: esiste uno sguardo femminile? Si può capire che uno scatto è di una donna senza sapere chi lo ha fatto?
Una teoria dello sguardo femminile diverso da quello maschile secondo me è impossibile. Però se si guarda l’opera di queste donne non si può non essere sorpresi da alcune peculiarità. Prendiamo Tina Modotti. È una grande militante politica e comincia le sue foto politiche fotografando le mani dei lavoratori. Poteva farlo un uomo? Lei ha avuto la sensibilità di raccontare la fragilità del lavoratore, il punto dolente, sensibile. Ha un’empatia molto forte. O Dorothea Lange: la sua «Migrant Mother» è una delle foto canoniche del Novecento. Lei ha un pessimo rapporto con i figli perché vuole lavorare. In un campo di migranti guarda caso fotografa la donna con il bambino in braccio: formalmente è una via di mezzo tra una Natività, con la sua maestosità classica, e una Pietà, con la desolazione, coglie sia la maternità sia l’ansia, la pena. Quindi non so rispondere teoricamente ma ho dubbi che un uomo avrebbe potuto scattare questa foto.


Le indiscrete. Storie di cinque donne che hanno cambiato l’immagine del mondo, 
di Elisabetta Rasy, 252 pp., ill. b/n, Mondadori, Milano 2021, € 20
 

Diane Arbus posa per un raro ritratto in un self-service nella Sixth Avenue a New York, 1968 circa

Ritratto di Dorothea Lange in California, 1936

Stefano Miliani, 19 settembre 2021 | © Riproduzione riservata

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Cinque fotografe indiscrete | Stefano Miliani

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