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Dall’alto al basso: la chiesa di Al Tahera prima e dopo il restauro

© Unesco

Dall’alto al basso: la chiesa di Al Tahera prima e dopo il restauro

© Unesco

Iraq: la ricostruzione a Mosul parla italiano

Maria Rita Acetoso, Senior Program Manager dell’Unesco, rivela come è stato possibile ricostruire tre siti dei tanti distrutti dall’Isis e dalla guerra: la moschea di Al Nouri, la chiesa siro-cattolica di Al Tahera e il convento domenicano di Al Saa’a

Stefano Miliani

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Nella Mosul ferita dall’Isis (o Daesh) e dalla guerra, in accordo con le comunità locali l’Unesco ha restaurato, oltre a varie case ottomane, tre monumenti nella città vecchia: il complesso della moschea di Al Nouri, del XII secolo, con il minareto inclinato di Al Habda del 1172; la chiesa siro-cattolica di Al Tahera del 1862 e il convento domenicano di Al Saa’a fondato nel 1870. Ne parla Maria Rita Acetoso, Senior Program Manager dell’organizzazione delle Nazioni Unite che ha gestito la ricostruzione dei tre siti. Italiana, laureata in Architettura con un dottorato in gestione del patrimonio culturale, Acetoso ha lavorato con organizzazioni non governative nel Mediterraneo orientale e per un paio di anni nel progetto «Grande Pompei». Nell’Unesco dal 2015, è andata in Afghanistan; da cinque anni e mezzo è in Iraq: «Mi sembra il modo migliore per cambiare qualcosa in Paesi svantaggiati utilizzando il patrimonio culturale».

Architetto, in che cosa è consistito il restauro dei tre monumenti?
Il complesso di Al Nouri, che include il minareto, era stato distrutto intenzionalmente da Daesh poco prima della liberazione della città nel 2017. La chiesa di Al Tahera era stata colpita perché l’esercito iracheno bombardava man mano che si avvicinava alla città vecchia, dove Daesh si era ritirato. Di Al Saa’a una parte era crollata per un’esplosione nelle vicinanze. Le fasi iniziali sono state comuni ai tre siti: un’indagine preliminare per organizzare lo sminamento, la rimozione e la raccolta dei detriti con una selezione degli elementi storici da preservare, la messa in sicurezza delle parti rimanenti. Poi si è programmata la ricostruzione con il Ministero della Difesa e il Ministero dell’Interno iracheni. Divenuti accessibili i siti, abbiamo cominciato il rilievo dei resti. Contestualmente e dopo la pulitura, lo sminamento, il recupero dei frammenti, c’è stata la lunga catalogazione condotta con il Ministero della Cultura. In parallelo abbiamo collazionato tutti i materiali d’archivio e gli articoli pubblicati sui monumenti in modo da capire la situazione prima della distruzione.

Che cosa avete trovato? 
Sulla moschea e il minareto avevamo foto dai primi del ’900 al 2013-14, prima di Daesh. Su Al Saa’a avevamo foto risalenti al 2003, su Al Tahera dell’epoca precedente alla presa del potere di Daesh, quindi del 2013-inizio 2014. Non tanto su Al Saa’a, ma sugli altri complessi scarseggiava molto una documentazione sulle trasformazioni, che è fondamentale. Per esempio, le foto di archivio del minareto ci hanno consentito di capire se erano state fatte operazioni sulle decorazioni e di guidarci sulle superfici rimaste. Sapevamo di interventi importanti fatti da Fondedile, una ditta italiana attiva dagli anni ’60 agli anni ’80 che aveva brevettato dei «pali-radice» per risolvere il problema degli edifici a torre, torri campanarie, minareti, che tendono a inclinarsi: abbiamo trovato la pubblicazione del progetto, ma nessuna documentazione su che cosa era stato effettivamente eseguito. Un grosso scavo archeologico intorno alle fondazioni ci ha consentito di scoprire informazioni inedite.

Per esempio?
Per esempio il minareto non era isolato, come invece compare già in foto dei primi del ’900, tranne che per il lato sud, dove c’era una scuola demolita negli anni ’40: aveva strutture preesistenti su tutti i lati. Con gli scavi abbiamo scoperto che i «pali-radice» di Fondedile erano stati eseguiti solo in minima parte. Dei carotaggi sulla base inferiore del minareto, che ha due basi, ci hanno fatto capire un’ipotesi già fatta dal professore di restauro del Politecnico di Torino Andrea Bruno che aveva lavorato con Fondedile: che in una base ci fosse un ambiente. Lo abbiamo trovato. 

Il minareto di Al Hadba prima del restauro. © Unesco

Il minareto di Al Hadba dopo il restauro. © Unesco

Per il minareto avete consultato un esperto della Torre di Pisa.
Abbiamo coinvolto l’ingegnere strutturale Stefano De Vito che era nella commissione della Torre. Tra l’altro ha fatto una tesi sul comportamento non lineare delle mura storiche di mattoni. Era la persona giusta e ha seguito il progetto dall’inizio.

Perché il minareto si è inclinato?
Per una combinazione di fattori. Poggia su un terreno abbastanza instabile, poi le trasformazioni nel tempo intorno al minareto hanno favorito qualche assestamento. Le caratteristiche estremamente disomogenee dei mattoni originari sono probabilmente una delle cause maggiori dell’inclinazione. Non è rigido come la Torre di Pisa ma è deformato, sembra una banana.

Come avete deciso se ricostruirlo inclinato o dritto?
Con il Dipartimento di statistica dell’Università di Mosul abbiamo fatto un sondaggio nella popolazione: il 99% ha risposto che voleva il minareto ricostruito com’era e dov’era, quindi inclinato. Ma nessun minareto è mai stato costruito già inclinato. Quindi è stato sviluppato un modello di calcolo con tre assunti fondamentali: uno, bisognava lavorare sulla fondazione; due, dovevamo conservare il più possibile di quanto rimasto e, quindi, consolidare i resti delle due basi; tre, volevamo utilizzare tecniche tradizionali. Secondo il Dipartimento di rilievo di Mosul dovevamo fermarci a un’inclinazione di un metro e 60 centimetri, non arrivare ai due metri e mezzo raggiunti prima della distruzione.

Quanto è alto e che cosa avete scelto?
Quasi 50 metri. Ci siamo consultati con l’Università di Mosul su due opzioni: ridurre l’inclinazione e utilizzare tecniche tradizionali lavorando sulla qualità dei materiali oppure riprodurre l’inclinazione di 2,5 metri, ma in questo caso avremmo dovuto adoperare tecniche che, come Unesco, non consigliamo. Per tutti gli interpellati non esisteva un livello di inclinazione giusto, alla loro memoria collettiva interessava semplicemente che fosse inclinato.

Avete sondato la popolazione su quali monumenti ricostruire?
All’epoca delle negoziazioni tra l’Unesco e il Governo dell’Iraq io lavoravo in Afghanistan, però la consultazione fu fatta. Il primo monumento selezionato fu la moschea con il minareto, è il più importante della città antica. In più in quel punto Daesh aveva dichiarato come spregio l’inizio del califfato e, anche politicamente, c’era la volontà degli abitanti di partire da quel sito.

Il convento di Al Saa’a prima del restauro. © Unesco

Il convento di Al Saa’a dopo il restauro. © Unesco

Avete coinvolto molti giovani?
Abbiamo organizzato due corsi: in uno abbiamo formato 50 giovani architetti e ingegneri, nell’altro quasi 100 artigiani in partenariato con l’organizzazione intergovernativa Iccrom, che ha sede a Roma. In parallelo abbiamo fatto «job training», dove impari mentre fai, soprattutto come ricostruire una muratura di mattoni o restaurare superfici. Con la formazione, da un lato si sono creati 6mila posti di lavoro, dall’altro si è incluso il restauro dei monumenti e delle case (ne abbiamo riabilitate 124 ma non me ne sono occupata io).

A Mosul c’è un altro centinaio di moschee da restaurare, vero?
Sì. Alcune piccole vengono restaurate anche con iniziative locali o private, la popolazione è abbastanza attiva, varie famiglie hanno istituito fondazioni che finanziano i lavori. Adesso ci sono molti altri attori come il World Monuments Fund o la Fondazione Aliph.

Quanto è costato restaurare Al Nouri con il minareto, Al Tahera, Al Saa’a? E chi ha pagato?
Il lavoro sui monumenti è parte del programma «Spirit of Mosul» lanciato dalla direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay nel 2018. All’interno di questo progetto la ricostruzione dei tre monumenti è stata finanziata dagli Emirati Arabi Uniti per, complessivamente, 50,4 milioni di dollari. L’Unione europea ha lavorato sulle 124 case, una parte a Bassora e una a Mosul, per circa 30 milioni di euro. Donatori più piccoli hanno contribuito ad altro. Ad esempio Aliph ha contribuito con 1,5 milioni di euro al restauro della Casa della preghiera, vicina ad Al Saa’a, sempre dei domenicani.

Quanto rimane da recuperare a Mosul?
Purtroppo l’80% della città storica è stato totalmente o parzialmente distrutto. La parte più danneggiata è quella lungo il fiume che separa la Mosul moderna dalla vecchia. Il programma continua con fondi dell’Ue su monumenti selezionati con le autorità locali. Resta tanto da fare. 

Può delineare un quadro generale dei monumenti danneggiati in Iraq?
Nel Paese molto altro è in condizioni critiche. Noi lavoriamo anche nel centro storico di Bassora, poi ci sono Samarra, Ur, Babilonia, Assur, Hatra. L’Isis ha fatto i danni più grossi nel protettorato di Ninive dove ci sono interi settori della città antica mai scavati perché al di sopra c’è quella moderna, come a Ercolano. Nonostante il patrimonio culturale particolarmente ricco, in questi Paesi la cultura non è una priorità. L’ho visto anche in Afghanistan: decenni di instabilità politica, il turismo è molto limitato, una volta che scavi e restauri per esporre la materia antica devi avere un piano di sostenibilità e mantenere i siti archeologici costa molto. Al netto dell’assistenza internazionale, il problema è la conservazione a lungo termine.

La ricostruzione con il confronto con la popolazione locale può replicarsi in città come Aleppo in Siria?
Credo che quanto abbiamo fatto a Mosul possa essere utilizzato come modello da replicare altrove. I siti sono stati selezionati strategicamente per fare da volano a un processo che ha invitato altri attori a contribuire e per risvegliare l’interesse della comunità locale. Un conflitto avviene dopo anni di instabilità politica, di esacerbazione delle dinamiche sociali, religiose, di segregazione, di isolamento, di radicalizzazione. Soprattutto le nuove generazioni crescono in decenni di preparazione al conflitto e non conoscono la propria storia. La cultura nel senso più ampio del termine è fondamentale alla coesione sociale, ci insegna che siamo figli di un processo, non c’è un modo giusto di essere, diventi tollerante verso la diversità e questo contrasta l’estremismo. Detto questo, a Mosul sin da subito la nostra strategia è stata per il massimo coinvolgimento della comunità locale. Anche attraverso programmi di formazione, di rieducazione al patrimonio, lavorando con Ong locali organizzando visite delle scuole nei cantieri. La ricostruzione deve rispecchiare le aspettative della comunità. Il patrimonio culturale, soprattutto costruito, esprime un’identità.

Stefano Miliani, 23 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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