Uno still dalla videoinstallazione «Emergence» (2002) di Bill Viola © Bill Viola Studio. Foto Kira Petrov

Bill Viola, il guru elettronico

Image

Uno still dalla videoinstallazione «Emergence» (2002) di Bill Viola © Bill Viola Studio. Foto Kira Petrov

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

«La videoarte non esiste». Così parlò David A. Ross, il celebre critico americano che della videoarte sa tutto. Non esiste, aggiunse, «come categoria della storia dell’arte. È provvisoria, una semplice categoria di comodo». In effetti sarebbe come categorizzare la storia dell’arte attraverso i mezzi che gli artisti hanno utilizzato nei secoli: con la pittura si è detto tutto e il contrario di tutto (anche della stessa pittura); idem per l’arte installativa, la scultura, la fotografia ecc.

Quindi la famosissima affermazione di McLuhan secondo la quale «il medium è il messaggio» andrebbe presa con le pinze. Del resto, come dare torto a Ross? Che cosa connette una videoinstallazione fatta di totem televisivi di Nam June Paik a una performance di Ana Mendieta? Che cosa unisce la critica dei mezzi di comunicazione da parte di Antoni Muntadas in un’installazione composta da diapositive proiettate su schermi televisivi vuoti (in sottofondo l’irresistibile Enzo Jannacci recita il mantra «La televisiun la g’ha na forsa de leun. La televisiun la g’ha paura de nisun. La televisiun la t’endormenta cume un cuiun…») e la pretenziosa saga fantascientifica, ovviamente distopica o forse no, «Cremaster» di Matthew Barney? La videoarte non esisterà come categoria della storia dell’arte, ma è tuttora l’incubo dei giornalisti che inviati a Venezia, a Kassel, a Istanbul o a Sydney devono mandare il pezzo in giornata.

Perché il video, come familiarmente lo chiamiamo, è tiranno come il tempo che richiede la sua fruizione, soprattutto quando di tempo non ne hai. Il video è un richiamo all’ordine: è un tipo di opera che esige quel tempo che il visitatore del Louvre dedica al massimo alla Monna Lisa, non certo alla pur sublime brioche di Chardin.

Dal diluvio all’autolavaggio

Non stupisce che un artista come Viola divida il pubblico tra irriducibili, commossi ammiratori e scettici che gli riconoscono poco più di un’eccellente tecnica. Tra questi ultimi, il critico newyorkese John Haber che racconta così il suo ritorno a casa dopo la visita a una mostra di Viola: «La porta di un autolavaggio era aperta sulla Decima Avenue, molta acqua cadeva giù, insieme a molta schiuma. L’epifania di luce di Viola era finalmente entrata nel ventunesimo secolo. L’ho immaginata in video, prima da lontano, come un piccolo rettangolo nell’oscurità, per poi crescere e infine superarmi, forse investendomi. (...) I misteri esistenziali di Viola continuano a farmi ridere, tranne quando mi fanno arrabbiare o annoiare a morte. Tuttavia, posso ridere quanto voglio, ma lui attira le folle per un motivo».

E il motivo è semplice: Viola non ha bisogno di uno spettatore, non se ne accontenta. Non vuole che il visitatore osservi con più o meno partecipazione, vuole piuttosto abbattere il confine tra illusione e realtà per scagliare il non-più-soltanto-visitatore in un’esperienza totalmente immersiva. La fortuna di Viola, che nel momento in cui scriviamo sta dando gli ultimi ritocchi a una sua retrospettiva a Palazzo Reale a Milano, continuerà sino a che il pubblico sarà alla ricerca di una virtualità consolatoria, di un miraggio che sia nel contempo un sicuro rifugio; un pubblico gratificato dall’essere illusoriamente al centro della scena e sempre più abituato a una presa diretta dell’orrore e dell’estasi purché trasfigurata da una visionarietà digitale L’uomo che ha reso popolare e spettacolare la forma d’arte sino a cinquant’anni fa più sgradita è l’analogo digitale di Marina Abramovic.

Ci offre le stesse cose, lei martire e lui demiurgo, entrambi elargitori di purificazioni e transverberazioni. Né lei né lui sono turbati dal successo (per inciso, il record d’asta di Viola è di 378mila sterline per «Eternal Return», ottenuto nel 2006 alla Phillips di Londra): «Per un certo periodo, dice lui, ho disprezzato i lavori che piacevano a molte persone, ma a un certo punto ho capito che queste cose non erano solo per un piccolo gruppo esoterico. Volevo davvero che tutti ne traessero almeno qualcosa». Qualcuno dice che la sua popolarità sia determinata dall’alta tecnologia con la quale si può rassicurare il pubblico sul fatto che ciò che vede, anche la più ruffiana delle immagini, è arte contemporanea.

O forse c’è dell’altro, un trucco vecchio quanto la storia della pittura. Una fascinazione che ci riporta alle lanterne magiche, ai diorami, alle vedute ottiche, ai pantoscopi settecenteschi retroilluminati da una candela. O all’attrazione esercitata da ogni composizione od oggetto riflessi in uno specchio, che saranno sempre più «belli» degli originali poiché lo specchio è ricettore di luce e quest’ultima irradia ciò che è riflesso. Il già citato John Haber imputa a Viola una buona dose di artificiosità, di irrealtà, di freddezza, di distacco dalla vita reale, nonostante pretenda di parlare all’umanità e di umanità: «La sua videocamera cerca di capire cosa rende umano un individuo e lo fa sbattendogli in faccia l'immagine di un estraneo. Prende alla lettera una vecchia metafora del genio artistico: una lente sul mondo paragonabile a un occhio umano. Bill Viola crea illusioni ma non ci crede. Quando Gary Hill fa camminare un visitatore della galleria sui cavi video, lo spettatore è effettivamente parte dell’opera. Al contrario, non mi sono mai visto nella goccia d’acqua di Viola».

Silvia Ronchey, raffinata bizantinista, ha invece recentemente riportato sulle pagine di «Robinson», uno dei settimanali di «la Repubblica», un antico racconto persiano. Due imperi, quello bizantino e quello cinese, si sfidano. Il campo di battaglia stavolta è incruento, è la pittura. Chi sono i più abili pittori? I bizantini o i cinesi? I primi riempiono una parete d’affreschi. Meravigliosi, impareggiabili, cromaticamente splendidi. I cinesi lavorano sulla parete esattamente di fronte, ma si limitano a lucidarla alacremente, sino a tramutarla in uno specchio.

Il racconto non lo dice ma noi immaginiamo che l’opera che apparve sulla parete-specchio fosse più bella e potente e luminosa di quella vera. Ma è indiscutibile che l’opera autentica resterà sempre quella reale, sulla parete di fronte. Il che non vuol dire che Bill Viola sia inferiore a Kiefer perché il primo fa video in cui la luminosità elettronica fa da brillante specchio a iconografie e capolavori piacevolmente riconoscibili e il secondo dipinge con non-colori opachi e pezzi di recupero rottamati. Il fatto è che, proprio perché la videoarte, come si diceva in apertura, non è una categoria estetica assoluta, dipende sempre da come e perché la si usa. Forse fu anche in base ad analoghe considerazioni che la giuria assegnò a Gary Hill e non al Padiglione americano di Bill Viola il Leone d’Oro nel 1995.
 

Uno stilla dalla videoinstallazione «The Quintet of Silent» (2000) di Bill Viola © Bill Viola Studio. Foto Kira Petrov

Uno stilla dalla videoinstallazione «Fire Woman» (2005) di Bill Viola © Bill Viola Studio. Foto Kira Petrov

1995: Pontormo alla Biennale

Sta di fatto che se nella moda il 1997 è considerato un anno memorabile (come racconta una mostra al Palais Galliera di Parigi, di cui si dà conto in questo numero di «Vernissage»), la Biennale di Venezia del 1995 (l’edizione che celebrava il centenario della mostra) segna una svolta nella storia della videoarte. Due maestri del settore ne sono protagonisti: Gary Hill viene insignito del Leone d’Oro (per la scultura, ma ormai le categorie disciplinari erano saltate da quando, anni prima, lo stesso premio venne conferito ai fotografi Bernd e Hilla Becher); Bill Viola miete successi come rappresentante degli Stati Uniti d’America.

In entrambi i casi, al netto delle differenze tra i due artisti, il video non è più quella cosa racchiusa nell’angusto spazio di uno schermo, ma si dilata alla ricerca di un coinvolgimento più diretto del visitatore. L’evoluzione tecnologica, ad esempio il passaggio dall’archeologica pellicola al nastro video, ha svolto un ruolo determinante nelle modalità espositive (se ancora può essere utilizzato, nella sua limitatezza, questa vecchia espressione) e in tal senso ciò che continuiamo a chiamare videoarte ha fatto la parte del leone, sovvertendo lo stesso tradizionale concetto di «mostra».

«In meno di dieci anni (dalla metà degli anni Novanta ai primi Duemila), scrivono Francesco Berardinelli e Francesco Poli in Mettere in scena l’arte contemporanea (edizioni Johan & Levi), il passaggio dai nastri in playback al “digitale”, fino alla completa riconversione-compressione dei dati, ora espressi in bit su dischi rigidi, porta le videoproiezioni a una resa qualitativa in tutto e per tutto in grado di emulare (e talvolta anche superare) il mezzo filmico tradizionale, con in più il valore aggiunto di un’adattabilità logistico-pratica insospettabile». Bill Viola, nato nel 1951 da una famiglia di origine italiana, è stato uno dei primi artisti a contribuire con le sue sperimentazioni all’evoluzione tecnologica del suo mezzo espressivo d’elezione.

L’incontro con Kira Perov risale al 1977, quando l’artista espone i suoi videotape alla Trobe University di Melbourne, allora diretta da quella che diventerà, come si suol dire, la sua compagna di vita e di lavoro. Viola, quindi, ha da subito le idee molto chiare sul fatto che l’immagine in movimento sarà il suo campo d’azione. Era il 1970, del resto, quando prese in mano per la prima volta una videocamera: «Come nuova tecnologia era ancora molto goffa e primitiva, ha ricordato in un’intervista. Era in bianco e nero e non c’era molto altro oltre a un pulsante rosso che si premeva per registrare. Ma quando l'ho premuto e ho visto questo bagliore blu sullo schermo prima che venisse visualizzata l’immagine vera e propria, qualcosa nel mio cervello mi ha detto che avrei fatto questo per tutta la vita. Naturalmente, all’epoca non era un’idea molto realistica o pratica. La videoarte non era un’opzione di carriera. Ma è stata una sensazione incredibile essere all’avanguardia in questa nuova cosa che non aveva regole e che comportava un progresso tecnologico che non si è fermato nemmeno oggi».

I due si sposano nel 1980 e subito dopo si trasferiscono in Giappone per un anno e mezzo lavorando per il Japan/U.S. Fellowship. Si avvicinano a due religioni: il Buddhismo e l’alta tecnologia, partecipando ai laboratori di ricerca della Sony Corporation Atsugi.

Ma torniamo a quella Biennale del 1995: Viola, che aveva già esposto al MoMA di New York nel 1987 e che nel 1992 aveva portato le sue opere in giro per l’Europa con una mostra organizzata dalla Kunsthalle di Düsseldorf, trasforma il padiglione statunitense in una sorta di cappella laica ma non troppo, visti i contenuti e una certa propensione al misticismo dell’autore. Quando si parla di immagini luminose, o di arte fatta di luce (si pensi a James Turrell, o allo stesso Dan Flavin, coinvolto persino, nella Chiesa Rossa di Milano, nel concepimento di quelli che possiamo considerare arredi sacri al neon), in effetti, la tentazione di parlare o di pensare a dimensioni spirituali è sempre presente. Lo era già in Nam June Paik (più zen) e lo è ora in Viola, che mixa zen, cristianesimo, new age, e insomma è un bell’esempio di ecumenismo.

Comunque è uno che non fa nulla per smentire certe sue propensioni vere o finte che siano. Solo lui può parlare senza pudore di «ispirazione» nel mondo dell’arte di oggi. E parlarne come se fosse una periodica vocazione, una chiamata che ti coglie quando meno te lo aspetti. «Buried Secrets», titolo del padiglione e dell’insieme di opere allestite a Venezia, consegna e consacra al pubblico il Viola come tutti lo conosciamo. Ecco l’incontro, in «The Veiling», tra un uomo e una donna in un ambiente immersivo, in cui due canali video di proiezione a colori, ai lati opposti della sala, mettono in moto le figure che attraversano lo spazio buio apparendo in nove grandi schermi di garza appesi al soffitto. Ed ecco «The Greeting», omaggio alla «Visitazione» di Pontormo (scena girata in 35 mm alla velocità di 300 fotogrammi al secondo, così che i 40 secondi dell’azione reale diventano 10 minuti nel video).

Ed è allora che, dopo avere esperito quella che diventerà una parte rituale della visita alle biennali (la penitenza della coda), tutti noi ci riconciliamo con la videoarte, finalmente umanizzata, persino italiana (si sa che noi italiani andiamo a New York per vedere i maestri del Rinascimento che abbiamo quasi sotto casa e ci commuoviamo di fronte a una margherita fatta bene in una pizzeria di Oslo), prodotta da un americano che a Firenze, a partire dal 1974, aveva lavorato per Art/Tapes/22, uno studio di videoarte. «A Firenze avevo scoperto che i musei erano fatti per l’arte e non il contrario, come avviene oggi», ha dichiarato in occasione della sua retrospettiva «Rinascimento Elettronico» nel 2017 a Palazzo Strozzi. E soprattutto scoprì che l’arte spesso non stava nei musei, ma nelle chiese o in luoghi pubblici, a disposizione di tutti.

Però il Pontormo di Carmignano non l’aveva mai visto dal vero quando ne trasse il suo video più noto, proprio come Bacon non aveva mai visto a Roma l’«Innocenzo X» di Velázquez quando se ne ispirò per la famosa serie dei papi urlanti. Sta di fatto che, usciti dal Padiglione statunitense a quella Biennale, tutti noi, visitatori appartenenti a quella generazione cresciuta sotto il giogo concettuale, capimmo che la videoarte non era solo fatta di immagini traballanti e in bianco e nero dove la gente fa cose strane o anche sconce, facendoci pure sentire in colpa per essere stati a guardare.
 

Uno stilla dalla videoinstallazione «The Greeting» (1995) di Bill Viola © Bill Viola Studio. Foto Kira Petrov

Fantasmi in piscina, angeli al buio

Il video stava cominciando a flirtare sempre più intensamente con il cinema, non solo per le rivisitazioni di «Psycho» o di «Taxi Driver» da parte di Douglas Gordon, ma concedendo qualcosa in più o alla narrazione (fino a tramutarsi in cinema tout court, come sarebbe accaduto con Steve McQueen, fatale omonimia, tradendo un po’ i suoi principi) o alla spettacolarità, con proiezioni sempre più ampie, totalizzanti, coinvolgenti (dieci anni dopo Pipilotti Rist sempre alla Biennale, fece restare tutti a bocca aperta con il suo lavoro nella Chiesa di San Stae).

A metà degli anni Novanta, in effetti, inizia quel processo che porterà l’arte contemporanea a stringere sempre più il suo rapporto con i visitatori; cominciò ad allentarsi l’enigmaticità che aveva causato una secolare separazione tra opera e osservatore; i lavori diventarono più «belli», più rifiniti, «abboccati», come si dice di certi vini anche troppo beverini. L’arte relazionale fece il resto portando il pubblico al Luna Park (Carsten Höller), i fotografi-artisti misero sempre più a fuoco i loro obiettivi su immagini ad alto tasso di decorativismo (Andreas Gursky), colore, contrasto e messa in scena (Philip-Lorca diCorcia) e insomma fu sempre meno difficile e sgradevole avvicinarsi al contemporaneo. Le fiere, con la spettacolarizzazione del mercato, furono la ciliegina sulla torta.

Bill Viola, esponente di spicco dell’era della spettacolarizzazione dell’arte, ha all’attivo la sua brava fase pre Viola meno compiacente, dall’ingenuo «Tape I» del 1972, in cui si ritraeva in uno specchio osservando intensamente verso l’obiettivo per poi esplodere in un urlo e cancellare l’immagine infilando un dito nella bobina del nastro, a «Reasons for Knocking at an Empty House», di dieci anni dopo, dove un monitor mostra un uomo colpito alle spalle a intervalli e lo spettatore guarda tutto mentre una cuffia gli trasmette racconti di una brutta ferita al capo. O anche, del 1979, il surreale e spettrale «The Reflecting Pool», in cui un uomo vestito si lancia in una piscina, l’immagine si blocca mentre l’uomo è in fase di salto e la figura bloccata lentamente si dissolve (nello specchio d’acqua, in sua assenza, si riflettono misteriose figure ecc., ma non spoileriamo).

Però poi comincia a usare attori professionisti (ancorché del Cirque du Soleil) e diventa appunto quello del «Rinascimento elettronico», con i suoi «quasi tableau vivant» (un genere che piace sempre) dall’iconografia sacra, come la rivisitazione del «Cristo in Pietà» di Masolino, quella delle Storie di santa Caterina di Andrea di Bartolo, creando una videopredella, le citazioni da Giotto, Luca Signorelli, Mantegna e Paolo Uccello (nella gigantesca «Going Forth By Day» del 2002, che in cinque video vuole ricreare la monumentalità dei cicli ad affresco e dove si concede anche una strizzatina d’occhio a Hopper).

L’altro versante della produzione di Viola è legato alla messa in scena di allegorie: «Nantes Triptych» (1992) è un polittico sul tema delle tre età della vita (con riprese effettuate sulla madre morente); «Passage», dello stesso anno, proietta la festa di compleanno di un bambino in una dimensione simbolica; «The Messenger», un uomo nudo affiorante a pelo d’acqua (1996) è immancabilmente un angelo. Gli elementi naturali di più immediata lettura, l’acqua e il fuoco, ricorrono in queste epifanie maschili e femminili. In «The Deluge» (2002) l’autore, non calcolando il rischio di un’involontaria comicità, indulge al catastrofismo di un diluvio che pare causato da una tubazione condominiale disastrosamente guasta, che fa scappar via e poi travolge gli inermi abitatori di un edificio.

Il ritmo, nei video dedicati alle passioni e alle espressioni del volto umano, varia; frequente il ricorso a riprese così rallentate da rendere i movimenti degli attori quasi impercettibili, cosa che piace molto in un mondo reale afflitto dalla fretta e dalla superficialità percettiva, così come piace la «caravaggiata» di vestire gli interpreti dei tableau vivant desunti da scene antiche con abiti moderni. Tra docce catartiche e roghi purificatori, c’è anche posto per le scene di martirio, proiettate nel 2014 nella Cattedrale di St. Paul a Londra, giottesche e caravaggesche a un tempo, anche se il Pomarancio, esercitandosi alla fine del ’500 in analogo tema sulle pareti di Santo Stefano Rotondo a Roma, si dimostrò più fantasioso e, anticipando Mario Bava e tutta la tradizione splatter, più cinematografico.

Franco Fanelli, 27 marzo 2023 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Doppietta della Fondation Louis Vuitton: Monet-Mitchell (675mila visitatori) e Warhol-Basquiat (662mila); Vermeer terzo per un soffio. Van Gogh primo in Italia. La moda sempre più di moda: Schiaparelli decimo posto, McQueen sedicesimo, Cartier diciottesimo

Il progetto «polifonico» del curatore Luca Cerizza e dell’artista Massimo Bartolini è uno spazio abitato dalla musica  e da poche opere di meditazione e di introspezione, i cui poli sono la natura e la spiritualità 

Da oltre cinquant’anni l’artista torinese dialoga severamente con la storia della pittura per rivelarne l’alfabeto nascosto. Scrive il «New York Times»: «Merita un posto nella storia mondiale dell’Astrattismo»

A Bassano del Grappa, il rapporto tra pittura e stampa nella Venezia cinquecentesca

Bill Viola, il guru elettronico | Franco Fanelli

Bill Viola, il guru elettronico | Franco Fanelli