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Silvio Berlusconi alla Biennale di Antiquariato di Palazzo Venezia nel 2014

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Silvio Berlusconi alla Biennale di Antiquariato di Palazzo Venezia nel 2014

Berlusconi, il mecenate che non fu

Il cavaliere, l’arte e la cultura: un bilancio in passivo

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Franco Fanelli

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Un suo ministro per i Beni culturali, Giuliano Urbani, è passato alla storia anche per un’uscita che, per un governo liberista, fu il più classico degli autogol, quando definì «un bru-bru» il mercato dell’arte, volendo sintetizzare quanto fosse o sia chiacchierato e poco trasparente, a suo parere, un già debole settore della nostra economia.

Un suo ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, ritenne opportuno dire agli italiani che «con la cultura non si mangia» (se ne consumava pochissima, del resto, sulle reti Mediaset). Nel suo quarto mandato come Presidente del Consiglio la successione al democratico Francesco Rutelli (governo Prodi) venne assegnata all’autore di imbarazzanti versi encomiastici composti in onore del Capo, Sandro Bondi.

Se si dovesse analizzare il rapporto tra Berlusconi e l’arte o la cultura in generale alla luce dei Governi da lui presieduti, il bilancio non sarebbe esaltante. Un suo grande amico nonché suo senatore, Marcello Dell’Utri, coltiva un’incontenibile e pare incontrollabile passione per i libri antichi, nota, però, anche attraverso le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto.

Diciamo allora che la politica culturale sotto il ventennio in cui Silvio Berlusconi, scomparso stamattina all’età di 86 anni, è più (e meglio) identificabile attraverso uno storico dell’arte che non è mai stato suo ministro, Vittorio Sgarbi, scomodissimo sottosegretario di Urbani. «Giuliano Urbani è una bravissima persona, dichiarò Sgarbi a “Le Monde”. (…) Ritengo che se il Ministero è nelle sue mani sia perché io non offrivo abbastanza garanzie agli occhi di Berlusconi: il Presidente del Consiglio mi considera un buon tecnico ma poco affidabile dal punto di vista politico. Non mi stupirei se mi ritenesse addirittura politicamente scorretto».Dal ’92 al ’99, dal lunedì al venerdì, all’ora di pranzo su Canale 5, Berlusconi affida comunque alla verve e alle invettive sgarbiane la trasmissione «Sgarbi quotidiani», monologhi di 15 minuti su fatti politici o sociali d’attualità.

Ma se Sgarbi è ed era allineato con una politica culturale di centrodestra, sostenitore della liberalizzazione del mercato dell’arte, del sostegno ai privati e dello snellimento della burocrazia, nello stesso tempo, come politico, guardava con favore al modello Spadolini, «patrimoniale e conservativo (...) un ministero simile a quello della protezione civile che aveva come primo assunto quello di difendere il patrimonio artistico», decisamente in contrasto  rispetto alle politiche di valorizzazione più o meno selvaggia del patrimonio artistico.

La conservazione e la tutela sono da sempre, non solo come sottosegretario, tra i suoi cavalli di battaglia e forse questo spiega, almeno in parte, il perché non fu mai ministro sotto Berlusconi. Fu invece, nel 2011 (Governo Berlusconi, Ministero Galan) commissario del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, che stipò con 200 artisti, altri 1.500 distribuendone su tutto il territorio nazionale. Quel padiglione, più ancora di quello curato da un altro critico più che simpatizzante del centrodestra, Luca Beatrice (pure autore del libro Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi, Rizzoli, Milano 2015), rappresentò al meglio che cosa doveva essere una mostra d’arte contemporanea una volta abbattuta la «dittatura» radical chic della sinistra. Trionfò un rumorosissimo ecumenismo estetico e stilistico (per le scelte, Sgarbi si affidò a «consiglieri» provenienti da vari ambiti della cultura e delle arti) lontano anni luce sia dalle rarefatte atmosfere del white cube sia dal purismo e dal fondamentalismo curatoriale del sistema dell’arte contemporanea.

L’estetica berlusconiana è quella passata alla storia della tv con lo sdoganamento di culi e tette di varia foggia e dimensione, attraverso i trionfi di varietà come «Drive In» o le veline di «Striscia la notizia». Non sembrò così incoerente che l’arma dell’aggressione subita da Berlusconi nel 2009 a Milano fosse un simbolo del Kitsch, un souvenir (in quel caso un modellino del Duomo, ma il massimo sarebbe stata la gondola che campeggiava sul comò in casa Fantozzi).

Ad Arcore, nella sua pinacoteca, vantava tra le altre opere un olio di Tiziano, «Ritratto di Ippolito dei Medici» (1533), una copia dell’«Antea» del Parmigianino, un ritratto della Marchesa Casati Stampa di Pietro Annigoni. Difficilmente un’eventuale donazione a qualche museo rappresenterebbe un arricchimento significativo per il patrimonio italiano. Né si è distinto, in vita, nonostante la cospicue risorse finanziarie, per memorabili atti di mecenatismo, se si esclude il mausoleo di famiglia commissionato allo scultore Pietro Cascella e il favore concesso al cantante Mariano Apicella, interprete delle canzoni scritte dallo stesso Berlusconi.

In compenso, ha fornito ispirazione a getto continuo a street artist, a un pittore neopop come Giuseppe Veneziano e al più geniale vignettista italiano, Altan, attento a sottolinearne le grandi orecchie (Berlusconi non amava essere ripreso di profilo) e i tacchi preposti a rimediare alla bassa statura.
 

Silvio Berlusconi alla Biennale di Antiquariato di Palazzo Venezia nel 2014

Franco Fanelli, 12 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

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