Anna-Eva Bergman, avanguardista moglie di Hartung

Una mostra, al Musée d’Art Moderne di Parigi, e un libro, di Thomas Schlesser, per la grande pittrice dall’anima complessa

Anna-Eva Bergman nel 1975 nel suo studio di Antibes in una stampa conservata alla Fondazione Hartung-Bergman © François Walch / Adagp, Parigi, 2023 © Anna-Eva Bergman / Adagp, Parigi, 2023
Flaminio Gualdoni |

È un caso davvero curioso quello di Anna-Eva Bergman (1909-87), figura maggiore dell’avanguardia storica anche se, per una ragione o per l’altra, si tende sempre a dimenticarsi di lei. È la moglie di Hans Hartung non una, ma ben due volte, tra il 1929 e il 1937 e dal 1957 alla morte, ma non è la solita donna i cui destini artistici sono legati a qualche titolo a quelli del marito. È svedese di nascita, ma norvegese di formazione, e quando divorzia la prima volta scrive prosaicamente a Hartung: «Devo essere completamente libera e sola, e soprattutto devo avere molto tempo, senza alcun lavoro domestico e altri tipi di impedimento, devo solamente occuparmi del mio lavoro personale e avere anche il piacere di riposarmi».

È una pittrice prima di tutto, vuole lavorare e studiare: il resto, matrimonio compreso, è contorno. Il Musée d’Art Moderne di Parigi le dedica la mostra «Anna-Eva Bergman. Voyage vers l’intérieur» (fino al 16 luglio), che è per molti versi una rivelazione. A parte la quantità di documenti esposti, inevitabile e preziosa visto che di lei non si sapeva quasi nulla, due motivi spiccano della sua personalità: la vera e propria passione che coltiva per la sezione aurea, e che la porta a stabilire forme delineate in modo esatto e calcolatissimo, e l’impiego quasi costante di oro, argento, piombo in foglia nei suoi astrattissimi dipinti. Alla faccia di coloro che, usando (male) le categorie definitorie in uso, vogliono che sia un’espressionista astratta.

Tra un matrimonio e l’altro con Hartung, del cui lavoro poco o nulla condivide, Bergman si sposa con Frithjof Lange, norvegese che sa di architettura antica e di Medioevo, che le rende familiare la policromia dei materiali, gli atti che appartengono al miniare e soprattutto un rapporto con il naturale che non passi per la somiglianza, ma piuttosto per sintesi brusche e forti, per un’essenzialità capace di toccare le corde del sacro, di una religiosità straniata.

Il suo lavoro maggiore Bergman lo sviluppa quando a fine anni ’50 mette su studio con Hartung nel Sud della Francia e si avvicina nuovamente, dalla sua radicalmente autonoma posizione, ai motivi del dibattito sull’astrazione: vi immette un ragionamento sulla luce che implica le materie pittoriche stesse, come fosse una sorta di mistica fuori dello spazio e del tempo. Il libro recente di Thomas Schlesser Anna-Eva Bergman. Vies lumineuses (Gallimard) ne dipana la contorta biografia e aiuta a comprenderne, almeno in superficie, l’anima complessa. Ne viene fuori che l’unico artista al quale Bergman sia in parte comparabile è l’immenso Mark Rothko. Il che è moltissimo, soprattutto per una personalità che fino a ieri la storia dell’arte neppure nominava.

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