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La Galerie d’Apollon del Louvre dov’è avvenuto il clamoroso furto di alcuni gioielli della corona francese

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La Galerie d’Apollon del Louvre dov’è avvenuto il clamoroso furto di alcuni gioielli della corona francese

L’invulnerabile Louvre... non così invulnerabile

Il Criptico d’arte • Il clamoroso furto dei gioielli della corona francese ha messo a nudo i punti deboli del museo parigino e la disarmante incuria del personale

«Too big to fail», troppo grande per fallire, è un’espressione che ho imparato nel 2008, e riguardava le istituzioni economiche che, per le loro dimensioni, a ogni costo non potevano fallire: ma sono fallite lo stesso. È la prima cosa che mi è venuta in mente vedendo la foto della scala per traslochi affiancata al Louvre in quella mattina fatidica del 19 ottobre scorso: anche un museo, in fondo, a suo modo può essere «too big», il che genera nei suoi reggitori una sensazione di onnipotenza, di invulnerabilità a prescindere, come per una sorta di diritto divino. 

Per cui, se sei un guardiano del Louvre, non ti preoccupi di chiederti che cosa faccia lì un attrezzo incongruo, oltretutto di dimensioni ragguardevoli, come una scala per traslochi, e chi l’abbia messo lì e perché: vorrai mica che qualcuno tenti di usarlo per rubare? E se sei un abilissimo genio informatico strapagato per sovrintendere ai controlli di sicurezza del museo, non ti inventi una password troppo complicata da ricordare, che poi tutti se la devono memorizzare come dei bancari qualsiasi: meglio usare la password «Louvre», facile, elegante, che vale come un titolo di nobiltà e nessuno, frastornato e messo in soggezione dal tuo essere il Louvre, oserebbe approfittarne. Giuro, ho riso per molti minuti, quando ho imparato questo mirabolante dettaglio. Solo dei ladri cafoni, gente di banlieue, avrebbero potuto attentare a tale esibizione di sovranità. 

E vogliamo parlare dei vecchi serramenti che proteggevano la Galerie d’Apollon, scrigno dell’identità francese, troppo storici per pensare di sostituirli con banali infissi a prova di effrazione? E degli allarmi, per i quali era invalsa la regola ormai consolidata che l’essenziale era averli, mentre farli funzionare era un optional? 

Da quando hanno realizzato la piramide d’ingresso, ormai decenni fa, e hanno costretto il pubblico a una lunga camminata per arrivare alle opere, i reggitori hanno ritenuto che il Louvre fosse un’entità pressoché invulnerabile, chiusa su sé stessa come in una bolla. Lo devono aver pensato in tanti, al punto da stressarne la struttura come un parco giochi sovraffollato: chi, dopo il mitico Vincenzo Peruggia, potrebbe mai pensare di rubare la «Gioconda»? 

Solo che il Louvre è una macchina un bel po’ complessa da gestire, e costosa: a parte i custodi, selezionati con la disattenzione proporzionale allo stipendio erogato, ci sono i tecnici, i tappezzieri, gli imbianchini e i manutentori a qualsiasi titolo, quelli che non toccano le opere direttamente ma operano nella zona grigia stratificatissima e tentacolare degli «addetti ai lavori» che fanno solo la cosa per cui sono pagati e se ne fregano di tutto il resto. Poco sensibili, a occhio, al sentirsi parte integrante di quella realtà immensa chiamata Louvre. Vedo una scala da traslochi parcheggiata di fianco all’edificio e mi dico che non so il perché, ma qualcun altro lo saprà e non me ne interesso. Faccio mediocremente solo il mio oscuro lavoro, e tanto mi basta. 

Al resto devono pensare i capintesta di grado elevato, quelli che si impennacchiano per camminare tronfi di fianco al presidente o alla ministra: sono quelli convinti che basta un ordine impartito seccamente e tutto funziona. Poi arrivano quei cafoni dei ladri, cui nessuno ha insegnato il galateo museale, e in minuti sette mandano in malora il prestigio del Louvre, anche senza conoscere la segretissima password che lo difendeva.

Flaminio Gualdoni, 05 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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