Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliIn principio era lo schermo. Da Richard Saltoun, la mostra «Il cinema per Fabio Mauri», curata da Laura Cherubini e aperta dal 19 marzo al 27 aprile, attraversa, con opere esemplari, il tema di fondo di tutta la riflessione dell’artista romano (1926-2009) sull’arte come proiezione (di immagini, idee, film, sogni, tragedie). Sono esposti infatti alcuni esempi dell’ampio ciclo degli «Schermi», avviati nel 1957, come interpretazione personale, e pioneristica, dell’azzeramento monocromo della tela e dell’acquisizione dello schermo come «forma simbolica del mondo». Mauri individuò infatti nello schermo cinematografico lo spartiacque tra la civiltà della rappresentazione manuale del mondo e quella della proiezione tecnologica. Vista l’attuale onnipervasività dei minischermi dei cellulari, aveva visto bene.
Tra le opere ora in mostra anche la videoinstallazione «Rebibbia» del 2006. Qui, una vecchia cassettiera, rinvenuta nel carcere romano di Rebibbia, funge da «schermo» della proiezione del film «La ballata del soldato» di Grigory Chukhrai del 1959. Il film è quanto mai attuale, avendo come protagonista un giovane soldato russo, morto al fronte, che voleva tanto dalla vita, ma che, come da sceneggiatura, «ha avuto solo il tempo di essere un soldato». Con la proiezione del film su una reliquia carceraria, Mauri, con la lucida capacità di sintesi poetica che caratterizzò tutti i versanti della sua creatività, realizza un’allegoria delle prigioni mentali in cui gli individui, le masse, la storia, cadono come pesci in una rete.
Nello spazio centrale della galleria, campeggia il readymade rettificato di «Pittura», 1996: un grande proiettore cinematografico in cui alla pellicola è sostituita una tela, metafora essenziale della sovrapposizione dei sistemi di raffigurazione narrativa. D’altronde, per Laura Cherubini, in catalogo, «il continuo scambio tra cinema e pittura è la materia viva dell’opera di Mauri».
Sempre la curatrice sottolinea come i film proiettati nelle sue opere siano sovente film di guerra. Mauri parlava di un’esorcizzazione del trauma della guerra da lui vissuto, trauma allietato solo dalla precoce amicizia con Pier Paolo Pasolini, a sua volta assunto, nel 1975, a corpo-schermo della proiezione del suo «Vangelo secondo Matteo».
Quale che sia il film, tuttavia, secondo la studiosa, «non è strettamente necessario capire di che film si tratta e vederlo in parte o per intero. Ciò che interessa Mauri è soprattutto il meccanismo della proiezione, che è quello del pensiero stesso». Era d’altronde lo stesso artista ad asserire che «fin dall’inizio, il mondo mi è sembrato una grande, e solo parzialmente decifrata, proiezione».
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L’altro Mauri

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